Brexit, Theresa May
sconfitta in Parlamento
per la seconda volta

“I sostenitori della Brexit hanno un pericoloso avversario che non riescono a nominare. Non è un partito d’opposizione, o Bruxelles, o chi è per restare in Europa. Il loro avversario è la realtà”: dopo la seconda sonora sconfitta in Parlamento di Theresa May e del suo piano per lasciare l’Unione Europea, 391 voti a 242, Rafael Behr sul Guardian commenta così la situazione.
La stampa inglese pesta duro sul fatto che ogni ostacolo incontrato in questi due anni nei negoziati sulla Brexit, fosse ampiamente prevedibile. Il governo britannico non ne ha tenuto conto, offuscato dalla folle illusione che “un blocco di 27 nazioni, ciascuna delle quali ha imparato a conoscere il valore dell’unità e della solidarietà, sarebbe stato la parte più debole nella trattativa” conclude Behr. 
L’Independent taglia corto e titola: “Tornate a casa e preparatevi a votare”. Jeremy Corbyn, leader laburista, ha detto che “il governo è stato nuovamente battuto da un’enorme maggioranza. Per questo – ha continuato – l’esecutivo deve accettare che il suo accordo sulla Brexit è chiaramente morto e che non ha il sostegno di questo parlamento. È il momento delle elezioni generali, perché il popolo possa scegliere quale sia il suo governo”. A dirla tutta, le dichiarazioni di altri laburisti di spicco, almeno fino a due giorni fa, non sembravano riflettere un partito ansioso di andare a votare per la terza volta in quattro anni.
Ora la crisi politica galoppa e, di pari passo, cammina l’orologio: manca veramente poco al 29 marzo, data stabilita per il ritiro del Regno Unito dall’Europa. Oggi Westminster si pronuncerà se lasciare l’Unione Europea senza alcun accordo. Nel caso questo scenario estremo fosse accantonato, il Parlamento britannico giovedì voterà se chiedere o meno un prolungamento del periodo transitorio all’Unione Europea. Per concederlo ci vorrebbe l’unanimità dei 27 Paesi che restano. In teoria il Parlamento può anche revocare l’articolo 50, la richiesta di lasciare l’Europa.
Ancora una volta, forse la volta definitiva, Theresa May non ha convinto Westminster, soprattutto sulla questione del confine tra Irlanda del Nord, che fa parte del Regno Unito, e Repubblica d’Irlanda, indipendente e membro dell’Unione Europa. Un confine che deve restare aperto. Senza barriere o controlli per le persone o per le merci, secondo l’accordo raggiunto con l’Europa. Per due ragioni: non isolare l’Irlanda, membro UE, e non rinfocolare tensioni tra Dublino e Belfast. 

Oggi, dove scorreva il sangue, passano più volte al giorno un confine ormai immateriale agricoltori, furgoni con i prodotti freschi, infermiere di comunità, pendolari che abitano e lavorano in posti formalmente diversi, ma ormai pienamente riconciliati. L’Unione Europea ha invocato questa tutela per tutto il periodo di transizione. “Invocato” e non “imposto”: perché gli Accordi del Venerdì Santo del 1998, che posero fine alla guerra etno-nazionalista tra cattolici e protestanti, obbligano la Gran Bretagna a tenere aperto l’unico confine con un altro Paese. L’Europa si ricorda cosa significò il conflitto e quindi ricorda al Regno Unito l’impegno preso.
L’ intesa con l’Europa presentata stavolta da Theresa May in Parlamento doveva essere, nelle intenzioni del primo ministro, una versione migliore e si divideva in tre parti: uno strumento legale vincolante, concordato da entrambe le parti, sul ritiro dall’Unione; una dichiarazione congiunta sulle future relazioni tra Regno Unito e UE; una dichiarazione unilaterale in cui Londra asserisce che non accetta di restare indefinitamente in un regime transitorio nei rapporti con Bruxelles. Tuttavia, secondo l’avvocato dello Stato Jeoffrey Cox nulla negli accordi scongiurava del tutto il rischio di una permanenza indefinita del Regno Unito nel limbo del regime temporaneo. I membri del Parlamento, per ragioni opposte, hanno trovato futile e dannosa la prospettiva di un limbo.
Oltremanica, ma anche oltreoceano, il governo inglese non incassa commenti lusinghieri. Non si perde in giri di parole Bloomberg: “May ha dimostrato di non essere in grado di condurre un negoziato, di non essere in grado di guidare un partito e di non essere in grado di presiedere il governo”.
È possibile che Theresa May sia indotta a dimettersi dai suoi stessi colleghi di partito, ma è anche vero che nuove elezioni potrebbero produrre un parlamento senza una chiara maggioranza. Con la stessa spaccatura tra i conservatori e tante divisioni anche tra i partiti di opposizione. Da questo punto di vista un nuovo referendum, con un quesito formulato in modo decente, potrebbe fare un gran bene alla reputazione della politica britannica.