Brexit: il voto di Westminster e l’ombra della crisi

Sembra che Westminster, la sede del Parlamento britannico, possa far precipitare il Paese in una crisi politica senza precedenti in epoca moderna.

Martedì 11 dicembre i 650 membri della Camera dei Comuni concluderanno con un voto vincolante cinque giorni di dibattito sui termini proposti dal governo per lasciare l’Unione Europea, che reca il titolo di “Atto di ritiro”. L’accordo era stato presentato dalla prima ministra Theresa May al summit del 25 novembre scorso e approvato dai 27 Paesi membri del blocco che Londra ha deciso di abbandonare. Gli analisti politici sono persuasi che, ad oggi, non vi siano i voti necessari perché la Brexit relativamente morbida delineata dalla May possa passare alla Camera. Dopo il vertice le posizioni si sono inasprite. Sono decisi a votare contro 412 parlamentari (94 conservatori, 254 laburisti, 35 del Partito Nazionale Scozzese, 11 liberali democratici, 10 del Partito protestante unionista dell’Irlanda del Nord, 1 verde, 4 progressisti del Galles e 3 indipendenti). Ora c’è anche un margine di 48 ulteriori contrari non confermati. A favore 226 voti: di questi 222 conservatori, 1 laburista, 1 liberale democratico, 2 indipendenti. Per i ricercatori della BBC non vi sono i voti necessari, sebbene tutti sottolineino quanto la situazione sia variabile. 

Il Regno Unito deve lasciare l’Unione Europea alle 23 di venerdì 29 marzo 2019, dopo che nel referendum del 2016 il 51,9% dei cittadini votò per andarsene, contro il 48,1% favorevole a restare in Europa. UK e Unione Europea hanno discusso per più di un anno sui termini del divorzio.

Ma cosa è stato concordato tra Gran Bretagna e Unione Europea? Vi sono due documenti. Uno, una bozza di 585 pagine, delinea i termini del ritiro e sarà, se approvato, legalmente vincolante per entrambe le parti. I punti principali sono l’impegno a far continuare a studiare e lavorare i cittadini britannici e dell’Unione dove attualmente si trovano, se desiderano restare. Si fissa poi un periodo di transizione di 21 mesi, per poter approfondire i temi del commercio. In questo periodo la Gran Bretagna continuerà a seguire tutte le leggi dell’Unione Europea per dare ai governi e alle imprese più tempo per preparare eventuali cambiamenti a lungo termine. L’accordo prevede da parte del Regno Unito il pagamento delle somme dovute all’Unione Europea, in pratica la sua quota di bilancio fino a tutto il 2020, pari a 39 miliardi di euro, con pagamenti decisamente inferiori fino al 2025 (“non ci si può alzare dal tavolo senza prima pagare il conto” fu la prima reazione allarmata dei dipartimenti finanziari di Bruxelles). Un punto importante è il mantenimento dell’unico confine terrestre tra Unione Europea e Gran Bretagna, quello irlandese, libero da blocchi e vincoli.

L’altro documento, 26 pagine, è tutto politico e delinea i futuri rapporti tra UE e UK: il progetto di un’area di libero scambio e di profonda collaborazione commerciale, con “zero tariffe e quote” e, assieme a questo, “un ambizioso accordo in materia doganale che rispetti la libertà di movimento delle persone, dei beni, dei servizi e del danaro all’interno dell’Unione Europea”. Subito dopo c’è tuttavia un riferimento alla fine della libertà di movimento nel Regno Unito, assieme all’uscita dalle normative finora comuni in materia di agricoltura e di pesca. Massima (ma generica) collaborazione in materia di ricerca, educazione, sviluppo di progetti spaziali, sicurezza e difesa.

L’accordo scontenta non solo i più accesi fautori del sì o del no al grande addio all’Unione Europea, ma anche forze che, come i laburisti, preferiscono a questo punto un piano B che segua la Norvegia nell’adesione all’Associazione Europea per il libero commercio mantenendo con l’Unione alcune politiche comuni.

Cosa può accadere in base alle norme? Se il Parlamento vota sì, l’accordo di ritiro entra in vigore all’inizio del 2019, il Parlamento europeo lo dovrà approvare o respingere a maggioranza semplice. Subito dopo, almeno 20 Paesi del Consiglio d’Europa in rappresentanza del 65% dei cittadini dovrà ratificarlo. Il 29 marzo il Regno Unito esce a tutti gli effetti. 

Se Westminster fra qualche giorno vota no all’accordo, il governo britannico ha 21 giorni di tempo per presentare un nuovo piano. Se anche questo fosse bocciato, vi sono quattro possibilità: lasciare l’Europa senza alcun accordo, rinegoziare tutto con i 27 Paesi dell’Unione, indire le elezioni generali, fare un nuovo referendum. Tutte possibilità costituzionalmente consentite, anche in abbinata, fermo restando che la prima eventualità, un’uscita al buio, è l’incubo dei mercati e non solo.

Un Regno Unito nel pandemonio potrà pesare e indebolire l’Unione Europea. “Alla lunga” l’esito dovrà per forza essere una soluzione chiara e di mediazione, visto che lo scenario che prevede nessun accordo paralizzerebbe le comunicazioni, l’economia, gli approvvigionamenti da e verso oltremanica. E’ proprio questo “alla lunga”, un ulteriore e imprevedibile fronte di crisi, che non è compatibile con un’Europa stabile.