Brexit alla deriva, l’ora della flextension per evitare l’uscita al buio

Se ne potrebbe riparlare fra un anno. Forse. Il primo ministro della Repubblica d’Irlanda Leo Vardakar ha detto che è “estremamente improbabile che un Paese dell’Unione Europea possa mettere un veto alla richiesta di rinviare la Brexit. Questo Paese – ha aggiunto – non sarebbe perdonato se bloccasse una proroga e ciò causasse difficoltà all’Irlanda o all’Unione Europea”.

È una dichiarazione che anticipa ciò che si prospetta al summit europeo di questa settimana: il presidente del consiglio europeo Donald Tusk ha già annunciato da giorni che sosterrà un’estensione flessibile, una “flextension” di dodici mesi. Un periodo in cui la Gran Bretagna potrà scegliere tra le opzioni in campo: qualunque sia l’indicazione del governo che sarà in carica a Londra e qualunque sia poi la scelta definitiva del parlamento, questa potrebbe essere sottoposta a un referendum confermativo. È un’ipotesi che si fa strada tra mille divisioni tra laburisti e conservatori, incalzati da un forte movimento per far tornare a decidere i cittadini. C’è invece poco da sperare sull’utilità delle trattative, avviate in un clima di confusione, tra il governo e i laburisti. Corbyn ha già detto che Theresa May, durante i colloqui di questi giorni, si è rifiutata di lavorare a un compromesso.

La prima ministra ha chiesto una proroga fino al 30 giugno nella chimerica convinzione di poter ancora far approvare la sua Brexit. Il premier irlandese Vardakar è invece d’accordo con molti altri leader europei sul fatto che una lunga estensione possa rimettere ordine nei pensieri dei legislatori britannici ed evitare che May continui ad andare a Bruxelles ogni due settimane per chiedere un altro rinvio.

Per un po’ alcuni Paesi dell’Unione protesteranno, Francia in testa, mentre la Germania farà dichiarazioni relativamente più accomodanti. I leader e i diplomatici europei, tuttavia, sanno bene che è in atto nella Camera dei comuni un dibattito in cui, di seduta in seduta, sta emergendo un consenso trasversale. Laburisti e conservatori sono d’accordo ormai su alcuni punti chiave, come un no a un’uscita alle condizioni della May e un no a un’uscita purchessia.

I sondaggi danno i laburisti in vantaggio alle elezioni europee, una votazione che, a dispetto di ogni previsione, si terrà anche nel Regno Unito. E non è detto che sia l’ultimo appuntamento con le urne europee per i britannici.

Vi sono fatti di cui ogni governo europeo deve tenere conto con la massima attenzione: primo fra tutti il dubbio, dimostrato dai voti indicativi della House of Commons, che uscire dell’Unione sia la reale volontà del popolo britannico e non invece un insieme di calcoli e manovre finiti molto male. È da chiarire una volta di più come le proposte e i relativi voti indicativi della Camera dei Comuni in queste settimane non siano un esercizio retorico, ma abbiano due scopi precisi: il primo, che sta già avendo un effetto, è quello di sottrarre al governo la costituzionalmente opaca ed esclusiva gestione della Brexit. L’altra finalità degli indicative votes è quella di individuare, con un procedimento per approssimazione successiva, ciò su cui tutti sono a maggioranza d’accordo. È già passato il sì a un rinvio indefinito all’uscita dall’Unione Europea.

Una lunga estensione dell’articolo 50, la partecipazione del Regno Unito alle elezioni europee e un nuovo corso politico a Londra, con la parola ai cittadini, sono il percorso più “pulito”. Le line rosse non valicabili messe di volta in volta da Theresa May di traverso al parlamento e ad alcuni dei suoi stessi ministri non hanno purtroppo alcun razionale democratico. Il governo ha da tempo perso la maggioranza, dopo la debacle alle elezioni del 2017, volute a tutti i costi dopo il referendum, nell’abbaglio di un rafforzamento del ruolo della prima ministra.

La scomoda verità per tutti i negoziatori di oggi in questa vicenda è che le cose dal 2016 sono totalmente cambiate. Nel Regno Unito e in Europa. I partiti nazionalisti hanno fatto ovunque un balzo in avanti e non è un gran momento per giocare a monopoli escludendo un robusto competitor commerciale, ma anche un solido presidio democratico, qual è il Regno Unito. Certo chi ha scommesso sulla Brexit per cambiare gli equilibri europei ha già fatto seri danni: la Gran Bretagna è diventata quasi la peggiore economia del G7, grandi compagnie come Nissan e Dyson hanno trasferito in altri Paesi le loro attività, continua il crollo della sterlina sui mercati valutari con forti perdite rispetto ai valori precedenti la Brexit, ad oggi oltre il 14%. Tutto questo, da notare, sta accadendo “prima” dell’uscita, anzi ancor prima della vera nella fase transitoria.

Gli elettori britannici, d’altra parte, hanno votato quasi tre anni fa un quesito di principio, “restare” o “andarsene”, senza alcuna informazione su cosa ci fosse oltre l’uscita. Il 51,9% ha scelto il divorzio dall’Unione Europea, ma senza che i termini concreti di questa divisione e le loro conseguenze fossero neppure vagamente accennati. È cominciata una trattativa al buio, con la Camera dei Comuni e gli stessi ministri informati sempre a cose fatte, condotta da un governo di minoranza e in un’Europa che rischia di scivolare in uno scenario politico sovranista dovrebbero indurre a più miti consigli per il bene di tutti.