Bosnia, al confine. Fotografato
da “Pensare migrante”

Cosa sia The Game, chi vuol sapere lo sa. E sono pochi. Anche di questo si è parlato, delle frontiere europee invisibili, gestite da una polizia che non è polizia e sembra una ong, che sconfinano oltre l’Europa per tenere in scacco il desiderio di migrare.
Se ne è parlato, tra chi vuol sapere, al festival organizzato da Baobab Experience a Roma, alla Mattatoio. “Pensare migrante”, un bel titolo: bisogna pensare migrante, infatti, per aver voglia di sapere cosa avviene laggiù, nei luoghi nascosti dove non è ancora Europa e dove si combatte chi ha bisogno d’Europa. La guerra ai migranti si fa nel Mediterraneo, infatti: mentre cresce il numero degli annegati e scende quello dei salvati, i riflettori dei media – con le solite lodevoli eccezioni, certo – si spengono sulle altre frontiere. Che ci sono.

Dibattito al Baobab, reportage sulla Bosnia. Emanuela Zampa e Valerio Cataldi
Dunque si è parlato delle responsabilità Eni e Shell nel Delta del Niger. Si è parlato di Jerry Masslo, il primo rifugiato assassinato in Italia. Si è visto un documentario su Cédric Herrou, il contadino francese che è anche il primo denunciato per solidarietà con i migranti. E ancora la presentazione del libro sui centri di detenzione in Libia di Medu, Medici per i diritti umani, L’umanità è scomparsa. Sulle rotte migratorie del XXI secolo, Il Pensiero Scientifico Editore, il focus sul Libano, i documentari sui minori e gli intoppi dell’accoglienza; oltre alla presentazione del libro di Mauro Biani, “La banalità del ma”.
E’ una frontiera la Libia, è una frontiera Ventimiglia, è una frontiera Trieste. Ma prima di arrivare a Trieste e Ventimiglia, chi non è abbastanza disperato da tentare il mare, fa un lungo giro via terra prima di arenarsi alle frontiere della Turchia e della Bosnia. Di questa frontiera ha parlato la fotografa Emanuela Zampa, incalzata dalle domande di Valerio Cataldi. Un gruppo di ricerca, uno storico, un antropologo e la fotografa: non sono giornalisti, i permessi sono stati meno difficili da ottenere. Ma il racconto di Emanuela Zampa non è meno efficace di quello di un inviato.
Migliaia di persone sono costrette a restare in non-luoghi circondati dalla foresta. Non è il punto di arrivo: il viaggio è stato lunghissimo, per percorrere la direttrice Grecia-Albania-Montenegro-Bosnia-Croazia ci vogliono anni, e coraggio. Chi la percorre viene da paesi distanti tra loro, Siria, Pakistan, Bangladesh, Afghanistan, Kurdistan, Algeria, Nigeria, Eritrea, Congo: in fuga da situazioni diverse, ma implacabili.

Frontiera e filo spinato, migranti

I non luoghi

Le foto sono sobrie. Pochi i volti dei migranti, internet è veloce e loro temono di venire riconosciuti, è pericoloso farsi localizzale dalle polizie, e anche in patria i parenti rimasti potrebbero subire persecuzioni. Poi, una volta raggiunta le meta, non vorranno che dimenticare: qualcuno porta sulla pelle il segno delle botte delle polizie che li respingono, la maggioranza ne ha i segni nell’anima, le sindromi da stress postraumatico sono moltissime.
Eccoli qui i non-luoghi di attesa, un’attesa infinita. Restare è impossibile, non c’è nulla se non un letto, a volte solo un materasso, e un pasto al giorno; e se non ci si presenta a ritirare il pasto per due giorni, si perde il diritto d’ingresso. L’assistenza sanitaria non è continua, per i bambini in una sola struttura c’è qualcosa di simile a una scuola, gli altri sono condannati all’analfabetismo. Gli insediamenti vengono gestiti in modo più che spartano dall’Oim, l’Organizzazione mondiale per le migrazioni finanziata dall’Europa oggi per tenere fuori dai confini i migranti, negli anni ’90 per gestire l’emergenza provocata dalla guerra nei Balcani. L’unica via di uscita è the Game.

A una cinquantina di chilometri da Velika Kladuša, mentre in città monta la diffidenza e l’intolleranza, nella foresta sono stati installati tre centri da cinquemila persone a Bihać, il confine è a quindici giorni di marcia. Poco lontano, a Miral, un centro che ospitava 700 è stato devastato da un incendio, trenta feriti e gli altri sfollati.

L’ex fabbrica

Una ex fabbrica di frigoriferi tramezzata con teli grezzi, così da simulare un’intimità alle famiglie: così apparivano nell’immediato dopoguerra i capannoni di Cinecittà che ospitarono profughi e sfollati, ogni famiglia nel suo loculo ma ogni sospiro, ogni colpo di tosse era in comune. I finestroni dell’ex fabbrica sono ampi, ma non bastano, all’interno i teloni fanno buio.
Un ex studentato accoglie altre famiglie, tantissimi i bambini. E poi c’è l’ex Hotel Sedra: apparentemente più dignitoso, dell’epoca in cui era la scelta delle classi più abbienti per le settimane bianche ha mantenuto arredi e apparenza, ed è qui che c’è una nursery e una classe per i bambini. Ma l’assenza di manutenzione e la muffa lo hanno reso cadente, e le regole sono quelle ferree degli altri centri. Anche qui è vietato l’ingresso alle associazioni, con l’eccezione di Save the children, o alle persone solidali.


Nei centri non c’è niente da fare, se non pulire gli spazi e fare la fila per il pasto. Una situazione molto problematica, che potrebbe perfino peggiorare: è in progetto l’accorpamento di tutti i centri in un ex bunker di Tito, sul confine. Perché qui, nonostante la presenza dell’Oim, non si è ancora in Europa. Questo è un effetto della chiusura delle frontiere, a restare aperto è solo qualche chilometro e il mare. Ma per raggiungere la prossima tappa del Game, c’è una foresta pericolosa, impervia orograficamente, fitta di orsi e lupi. E di guardie di frontiera, aiutate da droni e elicotteri. Quando intercettano un gruppo di migranti, oltre alle botte, spaccano i cellulari e sequestrano i soldi: tutti quelli che hanno tentato il Game senza riuscire lo testimoniano.
E’ anche la storia di Alì, tunisino. “Trent’anni, è stato fermato dalle guardie di frontiera – racconta Emanuela Zampa – lo hanno derubato e picchiato, e lo hanno lasciato nella foresta senza scarpe. C’era la neve. Dopo tre giorni di marcia Alì è arrivo in pessime condizioni a Bihać. I piedi congelati, e la mente sconvolta: rifiuta le cure, sta a letto, non vuole sia avvisata la sua famiglia. Non gli si può dare un tutore finché non si accordano le amministrazioni dei dieci cantoni che sovrintendono quel territorio. Comunque il suo viaggio è finito qui”.

E’ solo un tappa

Chi ce la fa a superare questa tappa, comunque, non è al sicuro. Arrivato a Sarajevo ancora rischia il respingimento, c’è rifugio solo negli squaw, chi vuole aiutare e portare cibo lo fa solo di notte e a suo rischio. Chi ingrassa sono invece i passeur, a Velika Kladuša come a Serajevo, da 1.500 a 2000 euro per arrivare a piedi alla frontiera, di più in auto.
Maledette frontiere. Ogni tanto la foresta restituisce un corpo, spesso lo nasconde. “Ma chi cerca di continuare il viaggio, respinto o espulso innumerevoli volte – dice Zucca – non può arrendersi. Questa non è vita, dicono, e vanno avanti. La chiusura delle frontiere ha creato una generazione di giovani che vivono migrando, senza possibilità di crescita”. Perché è così difficile capire che le frontiere, sopratutto quelle umane, vanno smontate?