Riunificare la sinistra
divisa tra riformisti
e radicali
L’obiezione è che gli elettori – il «popolo», la «gente» – non vogliono «più sinistra», altrimenti avrebbero votato Liberi e Uguali o Potere al popolo. Possiamo interrogarci se, nel campo della politica, l’offerta crei la domanda o viceversa. Io credo che la domanda esista, con istanze sociali, di giustizia e di uguaglianza, ma non incroci un’offerta credibile nelle leadership e plausibile come opzione di governo. L’affermazione assai deludente di Liberi e Uguali è stata paradigmatica di un problema di offerta politica anche nella sinistra radicale – ammesso che si possa definire «radicale» una forza guidata dalla figura nobile e istituzionale di un ex magistrato, difficile però da immaginare a capo di una battaglia per il reinsediamento sociale. Ma il problema di credibilità era generale: se vuoi distinguerti da un Pd tardo-blairiano, non puoi farti rappresentare dai blairiani degli anni novanta.
S’è detto che le sinistre perdono in mezza Europa, nel migliore dei casi per provare ad allargare lo sguardo, più spesso per rimuovere e ridimensionare i propri drammatici errori. Solo che non è vero. O meglio, è vero che la Grande recessione ha inferto colpi duri alle socialdemocrazie, specie quelle da anni assorbite nelle grandi coalizioni. È vero, insomma, ovunque le sinistre non abbiano saputo proporre una radicale discontinuità rispetto alle dinamiche economiche e sociali della crisi e alle ricette usate o imposte per contrastarla. I socialisti portoghesi, i laburisti inglesi e i socialisti spagnoli hanno invece vinto su questo. Peraltro, laddove perde la sinistra «riformista» se ne afferma una «radicale» o fortemente rinnovata. È stato il caso della Grecia con Syriza o di Podemos in Spagna (che non è certo come il M5S e il suo leader non è affatto un Di Maio). In parte, è il caso anche di Mélenchon in Francia. O ancora, con tutt’altra ispirazione e in tutt’altro contesto, qualcosa di simile si può dire per il voto verde in Germania.
La specificità italiana è che a sinistra perdono tutti, riformisti e radicali. E la portata della sconfitta a sinistra si misura non solo sulla quantità dei voti, ma sulla loro qualità sociale. La correlazione tra voto e condizioni socio-economiche è la costante di una stagione che si vorrebbe senza ideologie e senza classi. Gli ultimi anni hanno esasperato una tendenza iniziata già negli anni novanta e che ha portato allo stravolgimento della morfologia territoriale e sociale del voto a sinistra. La «sinistra della Ztl» è stata definita con sarcasmo. Il problema ovviamente non è se si raggiungono percentuali alte, comunque insufficienti, nel residuo di classe media ancora benestante, tra le fasce più istruite della popolazione. Anzi, aver perso il favore delle «professoresse democratiche» di cui parlava Berselli, dei dipendenti pubblici o di quelli privati sindacalizzati e a maggiore professionalizzazione, è stato il dramma di una sinistra che ha perso il suo popolo, lasciando degradare la loro condizione materiale e il loro status sociale.
Nelle Ztl i «nostri» non c’erano più, sostituirli con «altri» non basta. Il rivolgimento dell’insediamento sociale della sinistra è un problema per i riformisti, per la possibilità stessa di raggiungere il governo, ma lo è anche per i radicali, che rivendicano una diversità del tutto irrilevante per i cittadini che vorrebbero rappresentare. La correlazione tra le percentuali di voto, i livelli di reddito, di istruzione e i contesti urbani è un problema che non riguarda solo il Partito democratico, ma si è presentato anche per LeU e persino per le formazioni più radicali, che pure hanno pratiche sociali interessanti. Al di là di ogni altra considerazione, questa sconfitta comune toglie senso alla divisione tra riformisti e radicali che, pur priva delle ascendenze ideologiche di un tempo, negli anni del renzismo è sembrata una frattura insanabile.
I destini separati della sinistra riformista e di quella radicale in Italia si sono ora ritrovati all’incrocio di una sconfitta comune, che riguarda la natura di entrambe. La sinistra riformista ha consentito, dal governo, che crescessero disuguaglianze insostenibili e si riducesse la protezione sociale, diffondendo un ottimismo idiota sull’apertura a un mondo di opportunità, come fosse «il migliore dei mondi possibili». Mentre la sinistra radicale si è cacciata in un angolo di presunta «purezza» e autocompiacimento, indifferente al tema del governo, si è limitata a produrre, quando vi è riuscita, pratiche sociali interessanti che non sono riuscite a uscire fuori dal «coltivare il proprio giardino».
Tutta la sinistra italiana ha bisogno di reinventare se stessa, per ritrovare ruolo e funzione. Senza ogni volta fabbricare modelli da importare, è ciò che altrove hanno fatto Corbyn che ripoliticizza i giovani inglesi e lo spagnolo Sánchez che governa con Podemos, Costa in Portogallo col vento in poppa e Tsipras controvento in gran tempesta: sono tutte espressioni di una sinistra che ha superato in positivo la distinzione tra riformisti e radicali, perché è stata in grado nel suo complesso di proporre un orizzonte di cambiamento radicale insieme a una proposta credibile per il governo. Perché non basta tornare tra le persone, bisogna anche sapere cosa dire.
L’afonia e l’afasia della sinistra hanno caratterizzato un ciclo lungo della storia, e bisognerà tornare a pronunciare parole chiare per essere capiti e riconosciuti. Agli occhi della mia generazione, il balbettio è iniziato di fronte ai movimenti che a cavallo del millennio lottavano per un’altra globalizzazione. Erano pieni di velleitarismo, inquinati dai nichilisti e in alcune frange influenzati da ideali regressivi, ma nelle componenti cattoliche e progressiste avevano uno sguardo lungo che è stato smarrito. La sinistra riformista di allora, alla guida di grandi paesi (in Italia era tornato al governo Berlusconi, Fini benediceva la repressione di Genova), rifuggiva quelle piazze affermando di voler «civilizzare» la globalizzazione. Una pia illusione, in cui caddero in molti: anche quelli di noi che, nelle drammatiche giornate di Genova del 2001 o al Social Forum di Firenze l’anno dopo, della globalizzazione erano stati «oppositori», si illudevano, sempre con Stiglitz, di sapere «come farla funzionare». Le istituzioni sovranazionali che avrebbero dovuto governare il processo avevano forti deficit democratici, l’élite cosmopolita che le popolava e si presumeva illuminata era in realtà intrisa di neoliberismo e contribuiva all’arretramento dei poteri pubblici di fronte all’avanzata della «plutocrazia globale».
Aver sottovalutato o liquidato, come vecchi arnesi del Novecento, i pur limitati strumenti che ancora offrivano gli Stati per arginare le conseguenze più estreme della globalizzazione, rimandando tutto al compimento dell’integrazione europea, è stato il vizio di una socialdemocrazia in cerca di nuove virtù. La sinistra radicale, dalla già debole cultura istituzionale, era allora totalmente imbevuta dell’ideologia della «fine dello Stato». A Firenze, ricordo un discorso «spiazzante» e straordinario di Pietro Ingrao, che invitava quel movimento a porsi il problema del «potere», pensando precisamente a quali leve, istituzioni, strumenti immaginare, dopo le lotte, per incidere sull’economia e la società. Per gli antagonisti, lo Stato costituzionale e democratico non era nemmeno più un «comitato che amministra gli affari della borghesia»: semplicemente, con le sue letture alla moda, era sparito. Di quella ponderosa opera di Toni Negri e Michael Hardt, che salutava come benvenuto il «nuovo ordine della globalizzazione», l’Impero come «nuova forma di sovranità globale» a cui finalmente muovere una «guerra globale permanente», che la Moltitudine avrebbe reso una «democrazia globale», di quello sterile incrocio tra Marx e Foucault, cosa è rimasto? Nulla.
Di lì a poco, per rispondere al terrorismo globale, tornavano a muoversi eserciti nazionali, coalizioni di Stati «volenterosi» che calpestavano ogni dimensione sovranazionale della politica, processi di forte statualizzazione, per la pianificazione economica in Cina o Brasile o per la «guerra santa» e l’affermazione della sharīʿah nel mondo islamico.
Fu in quel passaggio che la sinistra, sia riformista che radicale, mancò all’appuntamento con la storia. E forse a lì risale il disarmo che si è visto di fronte alla crisi. La sinistra s’è accorta tardi della recessione economica, ma ancora più tardi della recessione democratica: la «grande regressione», è stata chiamata, con un riferimento alla «grande trasformazione» di Polanyi, ma analizzando fenomeni che vanno in un senso del tutto diverso, spesso inverso, alla direzione osservata dal grande sociologo ungherese.
Ora la democrazia si rattrappisce persino dove aveva le radici più antiche, il gioco delle potenze vede vecchi e nuovi autoritarismi. Nella “postdemocrazia» la concentrazione di potere privato fa saltare ogni compromesso con il capitalismo. Nella rivoluzione digitale sembrano vincere sempre meno aziende, più spesso quelle senza lavoro. L’apertura dei mercati ha contribuito sì all’uscita dalla miseria e dalla povertà di milioni di persone, ma tra i «paradossi» della globalizzazione vi è che la velocità di conquista dei diritti sociali e civili nei capitalismi che emergono è generalmente minore rispetto a quella con cui, nei capitalismi “avanzati», li perdono i lavoratori, già ceto medio, spesso nuovi poveri. Le grandi migrazioni non possono essere la sola risposta che resta nella disponibilità degli uomini. Su questo, misuriamo la distanza dell’Europa immaginata sulle Carte dei diritti dalle spiagge di Lampedusa, al largo di Malta. E risuonano le parole di papa Francesco sulla «globalizzazione dell’indifferenza».
La sinistra deve tornare a svolgere il suo compito, ritrovare uno sguardo sul mondo: disuguaglianze, mutamento climatico, guerre. La politica, e soprattutto la sinistra, non può dire che tutto ciò che è reale è razionale. Da troppo tempo ha rinunciato non solo all’ambizione di cambiare il mondo, ma anche solo di interpretarlo. E la mancanza di un pensiero autonomo l’ha privata di potere anche quando il potere ce l’ha avuto e l’ha esercitato con grande spavalderia.
Questo brano è tratto, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, dal libro
Giuseppe Provenzano
La sinistra e la scintilla. Idee per un riscatto
Donzelli editore
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