Bilancio partecipativo una sfida per l’Europa

 

Il 15 luglio 1215, Re Giovanni Senzaterra fu costretto a concedere ai propri baroni la Magna Carta Libertatum.

Tra gli articoli ve ne era uno che sanciva il divieto da parte del re di imporre nuove tasse senza l’approvazione del commune consilium regni.

La rivolta dei baroni del XIII secolo, le rivolte inglesi del 1608, la Rivoluzione americana del 1776 con la Dichiarazione di Indipendenza insieme alla Rivoluzione francese del 1789 dimostrano che le democrazie liberali sono nate e si sono sviluppate a partire dal rapporto fra i cittadini – fino ad allora “soggetti” – e il “sovrano” sulle questioni di bilancio.

Il principio no taxation without representation è stato poi ripreso prima nel costituzionalismo americano e poi in tutte le costituzioni che hanno sancito la nascita dello Stato liberale, democratico e sociale poi.

A partire dalla metà degli anni ’70 e dopo gli shockpetroliferi prima negli USA e poi in tutti i paesi dell’OCSE è stata introdotta la programmazione finanziaria pluriennale (in Italia con la Legge 5 agosto 1978).

La Comunità europea ha introdotto una prima programmazione finanziaria quinquennale dal 1988 al 1992 legata alla realizzazione del Mercato Interno portandola poi nell’Unione europea a sette anni dal 1993 in poi e per quattro periodi di programmazione pluriennale.

Alla fine degli anni ‘80 abbiamo assistito a quello che Yves Sintomer ha chiamato il ritorno delle caravelle perché per la prima volta le strade dell’innovazione istituzionale sono andate da Est per Ovest e dal Nord al Sud quando a Porto Alegre è stato immaginato il metodo del bilancio partecipativo come strumento essenziale di una nuova forma più avanzata di democrazia.

Al tema del bilancio partecipativo è associato quello deibeni pubblici co-decisi dai cittadini a livello locale e poi progressivamente in vari Stati dell’America Latina e dell’Africa.

Bilancio partecipativo e beni pubblici sono elementi essenziali di una società democratica perché su di essi si fonda il consenso consapevole dei cittadini e la responsabilità (accountability) di chi governa/amministra le risorse finanziarie pubbliche.

La Commissione europea ha avviato il 2 maggio la procedura che deve condurre l’Unione a dotarsi entro la fine del 2020 di un periodo di programmazione finanziaria dal 2021 al 2027.

Nelle proposte e nel metodo della Commissione non c’è traccia delle caravelle che sbarcarono a Porto Alegre nel 1989: nulla è previsto che assomigli a un bilancio partecipativo e i beni pubblici europei superano di poco l’1% del PIL europeo (per essere precisi l’1.111 %) suddivisi in cinque capitoli di spesa: politica agricola, coesione economica e sociale, competitività e ricerca, sicurezza e cittadinanza (ivi compresa l’immigrazione) e cooperazione allo sviluppo.

La strada verso la nuova programmazione finanziaria è tutta in salita: i governi decidono all’unanimità, il negoziato rischia di tracimare nella nuova legislatura europea che inizia il 26 maggio 2019 mentre l’attuale programmazione finanziaria si conclude il 31 dicembre 2020 e i precedenti del 1999 e del 2013 non inducono all’ottimismo poiché ogni volta l’ammontare complessivo delle spese (e delle entrate) è diminuito rispetto alla programmazione precedente nonostante l’aumento dei paesi membri.

La Commissione è riuscita a creare una santa alleanza di immobilisti contro la sua proposta e fra gli stessi immobilisti.

Si oppone (o almeno si dovrebbe opporre) il Parlamento europeo che aveva chiesto di superare l’1.3% del PIL europeo distribuendolo in cinque anni (e cioè la durata di una legislatura) tornando alla prima programmazione quinquennale proposta da Delors nel 1987.

Si oppongono i paesi contributori netti a cominciare dalla Germania con testa il ministro delle finanze SPD Olaf Scholz seguito a ruota da otto paesi nordici guidati dai Paesi Bassi.

Si oppone la Francia per difendere il tradizionale bacino elettorale degli agricoltori cui verrebbe decurtato il bilancio della PAC del 5%.

Si oppongono i paesi le cui regioni sono beneficiarie della politica di coesione, anch’essa decurtata per far poste alle nuove politiche.

Si oppongono infine i quattro paesi di Visegrad di fronte alla minaccia di ridurre loro i contributi se essi non rispetteranno il principio di solidarietà nelle politiche migratorie o violeranno i principi dello stato di diritto.

Per creare una alleanza di innovatori sono necessari due atti di realismo politico: un bilancio fondato sul metodo partecipativo e lo sviluppo pluriennale di politiche (spese) ed entrate (risorse proprie) che ci conduca entro il 2025 – l’anno dell’allargamento ai Balcani – a un quadro finanziario pre-federale pari al 2.5% del PIL europeo per garantire beni pubblici europei fondato su imposte europee sostitutive di imposte nazionali.

Chiediamo alla Commissione e al Parlamento di cogliere l’occasione delle consultazioni di cittadini proposte da Emmanuel Macron per organizzare in tutti i paesi membri delle convenzioni di democrazia partecipativadedicate allo strumento politico fondamentale nelle nostre società: la programmazione finanziaria 2021-2025 per decidere a che livello devono essere garantiti beni pubblici e sulla base di quali risorse.