Bianciardi, l'”ultimo bohémien” che vide
i primi mali della società dei consumi
Nel periodo tra le due guerre mondiali, il 14 dicembre del 1922, nasce Luciano Bianciardi. Giovanni Arpino – tra i due vi era una profonda amicizia – lo definì “l’ultimo Bohémien possibile, seduto sulle macerie di un romanticismo perduto”.
Il campo in cui Bianciardi imbastisce il suo percorso di scrittore è nella maremma degli anni’50. In una piccola cittadina in divenire, nella quale il progresso stava mettendo i propri germogli, concepisce il Lavoro Culturale, primo di quella che sarà una sorta di “trilogia della rabbia” composta appunto dal Lavoro Culturale, L’integrazione e La vita Agra.
Le contraddizioni della provincia grossetana
Della provincia Bianciardi carpisce la vivacità culturale che in quegli anni stava venendo fuori. Ne indovina però anche le contraddizioni e, con sardonica ironia, racconta il mondo letterario ed erudito della sua città natale, Grosseto. I cineforum che danno solo film sovietici o ungheresi, seguiti da animati dibattiti, sono la cartina di tornasole della provincia di allora. Un mondo ancora spaccato in due, tra il proletariato che sovente si rifaceva al Partito comunista italiano – che Bianciardi esortava di andare a votare ma al quale invitava di non iscriversi – e la classe borghese perlopiù democristiana. Eccetto alcuni intellettuali che, come viene raccontato da Bianciardi, si barcamenano per creare un ponte con gli operai. I risultati a volte sono grotteschi: operai assiepati nella sala cinematografica di Grosseto a sentire la recensione di un dato film ungherese di un critico venuto apposta da Roma.
Dal proprio cilindro Bianciardi pescava idee generose tanto quanto geniali; come il bibliobus, un pullman stipato di libri da elargire alla gente di campagna. Se le persone non possono raggiungere la biblioteca, sarà la biblioteca ad andare dalle persone. Un’autovettura che si faceva largo tra i paesaggi campestri, a bordo della quale vi erano Bianciardi e Carlo Cassola. L’inventiva di Bianciardi si manifestava anche e soprattutto nel linguaggio: per esempio Kansas City per denominare Grosseto. Appellativo affibbiato da Bianciardi dopo che i tenenti venuti dall’America trovarono una somiglianza tra Kansas City e la città maremmana. Streetrock che stava per Roccastrada. Il vezzo di traslare le parole nella lingua inglese è eredità adolescenziale. Degli anni trascorsi a trangugiare libri e romanzi dei narratori americani.
L’esplosione a Ribolla che lo scuote
Poi nel maggio del 1954, all’improvviso, nel paese di Ribolla, un’esplosione di grisou in una miniera di lignite miete le vite di quarantatré minatori. Un evento nefasto che percuote l’animo dello scrittore grossetano. Con Carlo Cassola scrive I minatori della maremma, libro-inchiesta sulle condizioni dei minatori e delle miniere maremmane. Allo stesso tempo il saggio è una denuncia contro le inadempienze e le negligenze della compagnia mineraria Montecatini, che causarono l’esplosione della miniera di Ribolla. Al pari di The road in Wigan Pier (del 1937) – libro sulle condizioni dei minatori inglesi – di George Orwell, l’inchiesta è oggi un classico della letteratura operaia.
Per Bianciardi però la faccenda di Ribolla resta una ferita aperta. Per lenire le proprie pene parte per la moderna Milano. Dai giorni trascorsi a Milano, Bianciardi tira fuori La Vita Agra (1962), il suo capolavoro. Una commistione di tutto quello che aveva vissuto fino ad allora: la propria vita sentimentale, quella lavorativa e soprattutto l’esplosione di grisou.
Bianciardi mette sulla carta ciò che egli vorrebbe ma non può compiere: fare esplodere con la dinamite il torracchione, emblema dell’edonismo. Milano ha le fattezze delle città post- industriali d’oggi. I primi grandi e orribili grattacieli sovrastano lo sguardo attonito dello scrittore maremmano. Vi sono supermercati dove accanto alla pasta si vendono libri. Cose eterogenee confluiscono nello stesso spazio e formano un agglomerato di beni a portata di mano. Racconta delle impiegate rinseccolite che battono a macchina con sguardi tristi ed assenti.
Dai minatori passa agli operai, che però non vuole raccontare perché non li conosce e non ha avuto modo di osservarli, come invece è accaduto per i minatori maremmani. Alla fine, è Milano ad averla vinta e Bianciardi col tempo finisce per consumarsi. Beve tanto e fuma di più. Tuttavia, ha in serbo ancora un altro coniglio da far uscire dal proprio cilindro. In Israele, per dileggiare il generale Moshe Dayan, si fa fotografare con una benda sull’occhio. Si tratta della sua foto più celebre. Tra le vie di Grosseto ci si può imbattere nel suo faccione appiccicato su un muro, in uno dei graffiti che lo ritrae con espressione serafica e benda sull’occhio.
Quando si rifugia nel passato
Nel periodo di eclissi milanese, si rifugia nel passato. Precisamente nel Risorgimento, scrive cinque libri: Da Quarto a Torino. Breve spedizione dei mille (1960), La battaglia soda (1964), Daghela avanti un passo! (1969), Aprire il fuoco (1969) e Garibaldi (1972). Esalta Garibaldi e i mille. Si sente anch’esso una camicia rossa disillusa, “l’ultima camicia rossa della storia” .
Perché ricordare Luciano Bianciardi? Egli, anticipando persino Pier Paolo Pasolini, fu il primo a capire e a criticare, se pure in maniera confusionaria, la società dei consumi. Essa era ancora agli albori, ma Bianciardi riuscì a predire che tutto il mondo un giorno sarebbe diventato come Milano. Osservando quella città dove “se caschi nessuno ti raccatta” intuì l’omologazione, nonché la progressiva dissoluzione dei rapporti umani. Il mondo d’oggi a Bianciardi di certo non sarebbe piaciuto. Chissà quali parole avrebbe usato per apostrofare i vari colossi della rete – soverchianti supermercati virtuali – le multinazionali e così via. No, una società in cui l’edonismo permea ogni lembo sociale, non sarebbe andata giù all’”ultimo bohémien”.
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