L’eterno ritorno
del Cavaliere

A volte ritornano. Senza disturbare la prosa di Stephen King, basta fare un sacco di promesse (che in una terra sofferente come la Sicilia è operazione assai facile), addentare arancini e fette di torta alla panna con annesse immagini di marzapane dei leader o aspiranti tali (dimenticando per qualche ora la ferrea dieta fatta per tornare indietro nel tempo), curare con attenzione desideri e aspirazioni degli alleati in vista della vera sfida, quella delle politiche di primavera E il gioco è fatto…  Silvio Berlusconi si è ripreso la scena. E’ tornato.

Primo attore nato, politico di professione nonostante il disprezzo da sempre mostrato per i suoi colleghi di Parlamento che, però,  “non hanno mai lavorato”, e qui sta la differenza da lui;  galvanizzato dal desiderio di vendetta verso chi lo defenestrò nel 2011, a  suo dire ingiustamente ma si sa che i protagonisti hanno la memoria corta; colte al volo le difficoltà evidenti di colui che con lui aveva stretto un patto per poi tradirlo; convinto infine che i competitor pentastellati qualche problema ce l’avrebbero avuto nonostante le scintillanti apparenze, ecco che Silvio Berlusconi è sceso ancora una volta in campo dopo più di ventitré anni. E ce l’ha fatta a conquistare la Sicilia. Per ora il governo dell’isola, ma poi chissà.

Certo, l’ex Cavaliere ne è consapevole, non nel ruolo di premier  se il centrodestra dovesse replicare a livello nazionale l’exploit siciliano, poiché le vicende giudiziarie sono  lì a  tarpargli le ali e l’eventuale assoluzione di Strasburgo arriverà troppo tardi; ma certamente da leader indiscusso di una coalizione che per ora ha dimostrato di guidare con il piglio di un comandante indisponibile a cedere i galloni.

A tavola al suo fianco, dietro quando si tratta di decidere, scalpitano Matteo Salvini e Giorgia Meloni. I rampanti leader della Lega con e senza Nord a seconda delle necessità e di Fratelli d’Italia che insieme fanno gli anni dell’uomo di Arcore, o poco più. Questo, loro non lo dicono, ma è la vera forza che sono sicuri che un giorno o l’altro potranno mettere in campo. Per ora i due sorridono nelle foto ufficiali assieme all’ottantunenne condottiero rimesso in forma. Rivendicano (la Meloni) di avere per prima capito che Musumeci era l’uomo vincente in Sicilia (ma intanto strizza l’occhio a Forza Nuova per segnare un punto anche ad Ostia). E Salvini in versione dialogante sacrifica il  simbolo pur di dimostrare che ormai la Lega ferma alla Padania non è che un ricordo sbiadito, vivo solo nel cuore di Umberto Bossi e di pochi nostalgici, avviandosi a spendere l’affermazione siciliana nelle altre, finora bistrattate terre del Sud, a cui  – prima – lui e i suoi non avevano fatto che augurare catastrofi naturali tali da cancellarle dalla faccia del Paese. Il Vesuvio e l’Etna sono dunque usciti dal lessico politico dei leghisti ripuliti.

Obbiettivo la primavera. Anche prima. Tant’è che superata in poche ore l’emozione di una vittoria, peraltro annunciata almeno per quanto riguardava la crisi di Pd e sinistra, il primo pensiero dei vertici del centrodestra è stato quello di sollecitare il presidente della Repubblica  ad anticipare quanto è più possibile la data del voto per le politiche per non consentire al centrosinistra quella  riorganizzazione necessaria dopo la débacle siciliana. Il tutto nella consueta ignoranza di tempi e ruoli. Innanzitutto della Costituzione. Una costante, quella di tirare dalla propria parte  regole e istituzioni, destinata da questo versante a non cambiare mai. O almeno per ora, se i protagonisti restano questi.

Lo spettro di Renzi e del centrosinistra per ora si è allontanato nel vuoto del voto siciliano; che però ha confermato a tutti quanto sia profonda  la disaffezione verso la politica e, quindi, le urne. Riflettere, prego.  Allora i competitor sul campo restano i Cinquestelle e la coalizione di centrodestra. Se la devono vedere tra di loro. Il giovane Di Maio, che sperava di sfidare Renzi forte della conquista della Trinacria e a delusione acquisita ha preferito una ingloriosa marcia indietro, viene identificato con il suo movimento dall’ex Cavaliere come il pericolo da  scongiurare, un agglomerato di “sfaccendati e disperati” a cui non si può affidare il governo del Paese. Lo sfrontato leghista Salvini che ha incassato il successo prima nei referendum consultivi di Lombardia e Veneto e poi con l’avanzata in Sicilia, ma che deve fare i conti all’interno del suo partito con uno del calibro di Roberto Maroni, che la palma della vittoria l’ha  subito consegnata all’amico Silvio Berlusconi, “un immortale, è sempre lui a dare le carte”. La rampante Meloni che comincia a scoprire che per le donne c’è qualche difficoltà in più anche se sono dure e pure come lei che come ciliegina sulla torta può anche andare bene. Ma non di più, stando agli atteggiamenti più o meno noti dei colleghi di coalizione, grandi sostenitori del celodurismo in tutte le sue espressioni.

La campagna elettorale per le politiche è già iniziata. Berlusconi ha cominciato  ad assaporare il gusto del 40 per cento che appare un obbiettivo raggiungibile  spalmando i risultati siciliani sul territorio nazionale della sua coalizione con l‘aiuto, non conteggiato nelle dimensioni che si sono avute, della Dc rinata sotto forme più attuali. Per ora, accantonato Renzi, i nemici sono i grillini. E allora, proprio per esorcizzarli, bisogna parlare al cuore e alla tasca degli elettori, cosa che all’uomo di Arcore è riuscita sempre molto bene. In versione moderata, è ovvio, proprio per contrapporsi alla veemenza di Grillo e dei suoi. E quel Salvini e quella Meloni continueranno anche ad abbassare i toni e a vantare la loro parte di contributo alla vittoria  siciliana ma “insieme a stento hanno preso il cinque per cento” ha subito ricordato un Berlusconi che come sempre non mostra dubbi: “Le elezioni si vincono al centro”. E lui dove sta da sempre? Sempre meglio l’originale che le copie.