A sinistra non basta l’antifascismo, serve un patto popolare

Una fondamentale contraddizione del voto (referendario e non) è che il Pd in lento arretramento tiene un fronte “anti-destra” che resiste in sempre più ristrette zone, spesso Ztl. D’altro canto il “Sì” al taglio del Parlamento ha vinto soprattutto al Sud e nelle periferie (sociali ed urbane), mentre il “No” si è affermato proprio nei collegi meno umiliati e offesi. Ovviamente, in Toscana (benché reattivamente ed episodicamente) resiste il voto popolare consolidato dalla sinistra storica ma non c’è da tranquillizzarsi: come già in Umbria e Marche si va dissolvendo. Non vi è futuro nel promuove sistematicamente un Cln dopo l’altro (contro Berlusconi, contro Grillo, contro Salvini) senza una svolta popolare (in senso politico, socio-economico e organizzativo) capace di diffondere il senso di una riforma del capitalismo partecipata.

Soprattutto, non serve a nulla appropriarsi frettolosamente del taglio parlamentare: lo dice la distanza fra i quartieri in cui il Pd prende i voti e quelli in cui ha vinto il Sì. Un progetto di accoglimento di classi popolari ignorate, senza guida e cultura democratica, lo ha tentato con efficacia il M5S, ma quanto rimane di quel 32% non si riconquista con i richiami “contro la destra” indossando la maschera più di moda.

Il caso svedese

Ciò non riguarda solo l’Italia, però. In questi giorni la socialdemocrazia svedese al governo tramite il suo leader ha dichiarato che l’eccesso di immigrazione rende impossibile l’integrazione. Ciò implica affermare (per la prima volta!) che l’integrazione mediante lavoro, welfare e istruzione non sarà mai abbastanza se gli immigrati “sono troppi”. Così i socialdemocratici hanno presentato un piano di regole molto restrittive. Non è importante il contenuto, bensì questo: dopo le ultime elezioni, per “fare fronte” contro i nazional-populisti, i socialdemocratici (sebbene più forti e radicati del Pd) hanno accettato l’appoggio di Centro e Liberali, ma senza abbandonare la fissazione per gli avanzi di bilancio, tanto più nella attuale formula di governo, che impedisce alla socialdemocrazia di attuare le nuove politiche pro-welfare che avevano promesso.

Ecco che allora, non potendolo fare a modo proprio, la socialdemocrazia spera di recuperare i ceti popolari persi verso i nazional-populisti Sverigedemokraterna adottando politiche altrui. Insomma, la socialdemocrazia trascura i propri legami sociali per “fare fronte” contro la destra, ma senza soluzioni reali deve poi passare dalla riforma del capitalismo all’improvvisazione snaturante. Come il PD sul taglio della rappresentatività parlamentare.

Peraltro, un uso rituale e strumentale dell’antifascismo ha l’effetto perverso di rendere sempre meno invotabile la destra: qualche bravo analista lo chiama giustamente un’insorgenza non già di fascismo (solo apparentemente) ma di “anti-antifascismo”. Ancora nel 2008 la “retorica Cln” prendeva il 50% degli elettori, oggi forse la metà contando le miserie di Renzi e di Leu-SI.

Un populismo correttamente inteso

Purtroppo, invece, anche in questi giorni alcuni propongono paradigmi asfittici e politicisti: affrontando quella che dipingono (appositamente) come la peggiore destra della storia della galassia, non si può che ricaricare all’infinito il giochetto dell’antifascismo emergenziale, snaturandolo peraltro gravemente. Al contrario, serve a sinistra un’idea di “populismo” correttamente inteso: una strategia ricostruttiva e rigenerativa del perduto rapporto con la gran parte dei cittadini. Insomma, una politica presente nelle periferie, radicata e partecipata (con idee organizzative nuove), tenendo conto che con il vuoto lasciatovi (da tutti) è possibile godere di un ampio margine iniziale di espansione.

Infatti, la connessione “virtuale” dei media sociali è in realtà utile alle comunità fisicamente esistenti e ideologicamente caratterizzate, perché le intensifica, non le supera. Per esempio France Insoumise e ancora di più Podemos sono organizzazioni che​ sperimentano molto la democrazia virtuale, ma siccome sono caratterizzati a sinistra e mantengono presenza locale rilevante hanno circa mezzo milione di militanti. Viceversa, la
indefinibile identità rende il M5S inconsistente se non (paradossalmente) nei palazzi del potere. Da cui il grave declino.

Serve dunque una strategia ideologicamente forte. In Italia potrebbe essere un “basta a sfruttamento e precarietà”, e (proprio imparando la vera lezione del referendum) il rilancio di forme partecipative nuove ad ogni livello.

Un “patto” per welfare e fisco

Ciò a partire dall’utilizzo dei fondi europei. Essi sono ancora per quantità e finalizzazione una possibilità ampiamente ambigua. Ma un’impresa come quella che stiamo ipotizzando può crescere esigendone una finalizzazione socialmente ambiziosa: un investimento co-deciso con organismi popolari, per impiegarli dal lato dell’investimento (innovazione ambientale, ricerca e sviluppo nazionale e nei distretti industriali), delle politiche attive (apprendimento continuo) e del welfare. In questo ultimo caso, è necessario un reddito minimo garantito nei periodi di passaggio – cioè una trasformazione, non una contestazione neoliberale, del “reddito di cittadinanza” M5S. E poi serve un’incentivazione del pensionamento dei lavoratori anziani logori e ormai difficili da integrare – trasformando la domanda sociale alla base di “quota 100” leghista, ma nel senso di incentivare l’assunzione stabilizzata delle coorti giovani e (specie nel nostro paese) ben più scolarizzate.

Il welfare si mantiene con la maggiore e buona occupazione, non con i tagli. Tutto con un patto nazionale: in venti anni si dovrà finire di competere con informalità, sfruttamento e precarietà, perché lavoratori e imprese avranno la qualità e l’investimento per non averne più bisogno. Ciò potrà allora (a tappe previste) aprire ad un fisco rigoroso ma equilibrato, diverso dalla percepita persecuzione di chi (imprenditori e finte partite IVA) cerca di sopravvivere anche con l’informalità. Sarebbe un orizzonte capace di indicare la giusta dose di avversari, parole d’ordine ma anche di alleati (in parte per esempio le imprese), tutte categorie necessarie per lanciare un movimento popolare, ma scommettendo non meramente sulla “pancia” degli arrabbiati, bensì canalizzando la rabbia verso una necessità storica nazionale.

Sulla base di risultati programmati e di un ben più ampio consenso popolare si dovrebbe poi affrontare con la UE il discorso che questo orizzonte di sviluppo (non il rientro del deficit immediato) è l’unico modo per abbattere gradualmente il debito. Qui si apre un capito ignoto, che non affrontiamo ora.

Nuove forme di partecipazione

arcelor mittal operaiTorniamo sull’ideologia partecipativa a ogni livello. Se il referendum dimostra che al momento il Parlamento non costituisce un’istituzione allettante di partecipazione, questa disillusione permette però di proporne una forma diversa: una nuova co-decisione popolare organizzata nell’uso delle risorse europee, nella gestione e rilancio delle istituzioni di welfare e scolastiche, nella programmazione del trasporto urbano post-Covid, nell’investimento nelle aree interne.

Un altro fronte essenziale è la co-decisione dei lavoratori nelle aziende: una forza socialista popolare così concepita potrebbe rivolgersi direttamente al lavoro sindacalizzato. La base dei grandi sindacati (come e più che in Svezia) è stata negli ultimi anni largamente perduta verso antipolitica, neo- e nazional populismo. Un movimento socialista popolare, dunque, può rinascere interagendo con le categorie
sindacali e formando, localmente e nazionalmente, comitati misti (partito-sindacato) per una rinascita innovativa e partecipativa. L’antifascismo fu egemone indicando e costruendo una società opposta a quella monarchica e fascista. Non va usato come richiamo elettorale e politicista con effetti alla lunga controproducenti.