“Babylon” non è una meraviglia di film: lo salvano Brad Pitt e Margot Robbie
“Vivrai per sempre tra i fantasmi e gli angeli”. La giornalista gossippara Elinor St. John così conforta, in uno dei momenti più alti delle tre, sovrabbondanti ore di “Babylon”, Jack Conrad, idolatrato divo del muto in crisi dura per l’avvento del sonoro. Con “Il cantante di jazz” uscito nel 1927 e le prime parole non solo cantate ma recitate da Al Jolson a più di mezza Hollywood trema la terra sotto i piedi, il pubblico impazzisce per la novità e le majors guidano il cinema – con tutta l’avida e creativa frenesia di cui è capace il capitalismo americano nei momenti ruggenti – verso una nuova, l’ennesima, rivoluzione. È la fine dell’epoca eroica e pionieristica, c’è chi resterà a galla e chi resterà sommerso, come Jack (Brad Pitt, splendido sessantenne) e la parvenue di talento Nellie LaRoy (una luminosa, gagliarda Margot Robbie). Il regista e sceneggiatore Damien Chazelle, 38 anni e nel palmarès un Oscar per il precedente “La La Land” sempre incardinato nel mondo dello show biz, con “Babylon” ha mirato alto, ammannendo un’imponente dedica nostalgica e divertita a quegli anni Dieci e Venti stracolmi di vizi e creatività, successi insperati e geniali produttori, vite al limite e oltre. Una missione cinefila cromata di citazioni e riuscita a metà.

Il colossal ispirato a Hollywood Babilonia
“Babylon”, ispirato al formidabile, capitale “Hollywood Babilonia” scritto dal regista e molto altro ancora Kenneth Anger, decolla ruggendo. Il produttore Don Wallach (Jeff Garlin, una bella copia di Harvey Weinstein, l’ex produttore della Miramax e stupratore seriale) ha organizzato una festa degli eccessi nella sua magione di Bel Air, tra generose imbandigioni di coca, copule sparse con ogni ingrediente e combinazione, un sabba esaltato dalla musica tribale e ossessiva (vicina alle sincopi jazz di “Whiplash”) del grande Justin Hurwitz, fedele “spalla” di Chazelle. Si aggiungano qualche sguardo in camera, un frullare di corpi discinti dalla sessualità più che fluida, un pizzico da Sorrentino in acido e una bella cucchiaiata di Fellini (“Satyricon”, “Roma”), tutto immerso da Chazelle in una coreografia troppo meccanica con l’ansia di comunicare allo spettatore: guarda che bolgia, che casino era.
La finzione ha bisogno di una sua verità, di una necessità, qui latitante in un affastellamento puramente quantitativo, senza una visione. Alla festa s’incontrano fatidicamente Nellie, wild girl dalla sensualità prepotente abituata a vivere di espedienti e con una voglia matta di entrare nel giro del cinema, e il messicano Manny Torres (Diego Calva, una bellissima scoperta), finito in quella gabbia di matti in quanto accompagnatore di un elefante: diventerà prima un risolutore di problemi e uomo di fiducia di Jack Conrad, poi salirà molti gradini e si costruirà una buona carriera di produttore esecutivo. S’innamora di Nellie, naturalmente.
Nel sabba il regista inserisce anche Roscoe “Fatty” Arbuckle col nome di Orville Pickwick (lo interpreta Troy Metcalf), una figura simbolo nella mescola di perversione e genialità della fabbrica hollywoodiana. Uomo Paramount, re delle comiche in cui sfruttava la sua mole di ciccione non pentito, montatore sopraffino, scopritore di Buster Keaton, era rimasto coinvolto nella morte di una giovane attrice, Virginia Rappe, violentata nel ’21 durante un festino, mentre in “Babylon” la preda di Orville nonostante un’overdose di coca si salva. E il malestro di Fatty non deve essere stato l’unico se Kenneth Anger col suo libro ha cambiato il celebre Sunset Boulevard, il viale del Tramonto, in viale del Trapasso, considerando pure la coeva epidemia di suicidi col Seconal.
Una trama caotica e spesso incoerente
Alla sarabanda nel villone, dove Nellie si fa notare – non è difficile, balla indemoniata ed è un bellissimo vedere – e viene inserita nel cast di un westernaccio in lavorazione, conosciamo anche Sidney Palmer (Jovan Adepo), gran trombettista nero, una reincarnazione del bandleader jazz Curtis Mosby, e Lady Fay Zhu (Li Jun Li) lesbica fatale che richiama Anna May Wong, prima star cinese di Hollywood. Entrambi molleranno la cosiddetta Mecca del cinema, il musicista stanco di umiliazioni sul set (una volta viene caldamente invitato a spalmarsi nerofumo sul volto perché non abbastanza scuro) tornerà a suonare in piccoli club, la conturbante orientale tenterà la fortuna in Europa. A titillare i cacciatori di chicche, ecco spuntare al party sfrenato nei panni del fotografo Charlie un mito del cinema underground tra gli anni Sessanta e i Settanta, Joe Dallesandro, membro della factory di Warhol – e non vi immaginate quanto membro -, protagonista in “Trash” e al fianco di Udo Kier in “Blood for Dracula” (entrambi con la regia di quell’altra bella lana di Paul Morrissey), pornoattore negli Usa e poi, sbarcato in Europa, presente in film di Walerian Borowczyk, Jacques Rivette, Catherine Breillat: quando si dice l’imprevedibilità della vita e del cinema.
Chiusa la prima festa – ce ne saranno altre due, momenti chiave del film – si torna alla luce del sole, in pieno deserto, e il film lievita. Tanti i set, più o meno improvvisati, in uno fa il botto Nellie, inventandosi Salomé western in una danza sul bancone del saloon seguita da un primissimo piano in cui piange più volte a comando: “Come ho fatto? Ho pensato a casa mia”. È nata una stella, proprio mentre in una confortevole tenda Jack finisce di sbronzarsi, si rianima e quindi esce a recitare l’ultima scena di un kolossal storico, dove “recitare” suona eccessivo, Jack va incontro alla sua bella, la bacia con passione e stop. Sulla pianura si scontrano due eserciti a colpi di lancia, esagerando in realismo, tanto che una comparsa finirà infilzata, con sollecito insabbiamento dell’incidente e forse dell’incidentato, un poveraccio disposto a tutto pur di portare a casa la zuppa.
Anni ruggenti sì, ma terribili sotto il profilo della tutela dei lavoratori. Dietro la macchina da presa c’è Otto von Strassberger (Chazelle ha arruolato alla bisogna Spike Jonze, il regista di “Essere John Malcovich”), tedesco, isterico, insopportabile. E stavolta il gioco delle corrispondenze è facile, ancor più perché a vigilare sulle riprese c’è Irving Thalberg (Max Minghella), detto “The Boy Wonder,” uno dei padri fondatori dell’industria cinematografica americana e dello star system, in breve: un genio, che tra l’altro riusciva a tenere testa a un regista umorale come Erich von Stroheim. Thalberg è l’unico personaggio di “Babylon” chiamato col suo nome, un segno di rispetto. Altrettanto azzeccata la scena in un mega studio quando la determinata Nellie – siamo già negli anni del sonoro – affronta per infinite volte la scena minata ora da uno starnuto ora da un microfono mal collocato. Un tecnico del suono, costretto a lavorare in un casotto dalla temperatura altissima, avrà un malore fatale e che sarà mai, lo show deve continuare.
Temeva di non farcela, la ragazza uscito dai suburbi e invece entra nei talkies, il cinema sonoro, a testa alta. A Jack la rivoluzione taglia le gambe, cambia mogli come calzini, s’inabissa, accetta film di serie B. Il pubblico lo ha abbandonato, peggio: con la sua recitazione ingessata suscita ilarità in sala, roba da suicidio (appunto). Il personaggio di Jack rimanda a John Gilbert, non sopravvissuto artisticamente al sonoro e pure, in virtù dei baffetti da sparviero, a Clark Gable. Altrettanto definitiva la parentela tra Nellie e Clara Bow, attrice ad alto potere seduttivo, stella assoluta del muto e non solo ma fragile, segnata da una famiglia disfunzionale con padre abusante e madre schizofrenica, come Nellie. Che è intemperante, ama gli eccessi, la droga e il gioco d’azzardo, porta in sé ferite dolorose e un disagio non emendabile.

A ogni modo si tifa alla grande per lei quando, invitata a una festa col fior fiore dell’upper class, tra miliardari che le palpano il culo e donnette maligne impegnate a metterla in difficoltà, urla insulti e vomita clamorosamente. In una notte di follia arriva a sfidare un serpente a sonagli nel deserto, mentre la gente di Hollywood assiste felice al combattimento senza muovere un dito, scena ad alto tasso drammatico, una delle più forti del film, notevolmente sorretto, si direbbe salvato, dalla coppia Brad Pitt-Margot Robbie, cui va aggiunta Jean Smart, che dona alla perfida giornalista Elinor St. John (personaggio basato sulla scrittrice inglese Elinor Glyn) un gioco di chiaroscuri indimenticabile.
Archiviata, almeno in ossequio alle apparenze, l’età d’oro della trasgressione, il mondo del cinema annusa l’aria proibìzionista e la Motion Picture Association of America raccoglie nel Codice Hays le nuove regole moralizzanti (niente crimini nei film, nessuna devianza, nudi manco a parlarne). Figuriamoci Nellie, irregolare finita in pasto alla stampa, incarognita e sempre più sola. Chi le resta? Il buon Manny, le tende una mano quando la wild girl gli chiede disperatamente aiuto. Ha perso un sacco di soldi al gioco, attrice in declino non sa come far fronte al debito e, grosso guaio, il creditore è James McKay, gangster di vaglia (lo interpreta con occhiaie inquietanti e viscidumi sparsi Tobey Maguire) e malefico Virgilio di Manny e dell’amico suo detto il Conte (Rory Scovel) nei meandri ipogei e malati della terza festa di “Babylon”, un letterale inferno. Manny e il Conte, rinomato spacciatore sui set di “pillole energizzanti” celate nel guscio delle arachidi, ci sono capitati per restituire a McKay il dovuto, peccato che i dollari siano falsi e perdipiù sconciamente falsificati, erano materiale di un set.
I piani sotterranei nella villa di proprietà del criminale sono popolati da un alligatore, varie specie di freaks (si pensa a Tod Browning e al suo capolavoro del ’32), compresi un elephant man (così anche David Lynch è sistemato) e un golem brutale che divora topi vivi. Sequenze forti, ritmate da un pathos crescente. Il Conte aveva tranquillizzato Manny: “Non c’è molta differenza con il nostro ambiente”, a scolpire nel marmo la sentenza che a Hollywood il Bene e il Male sono una cosa sola, ma non esageriamo. Manny salva rocambolescamente la buccia e organizza una fuga precipitosa con Nellie, metteranno su famiglia? Impossibile, non è roba per lei, scarta davanti all’impegnativo passo e sparisce. Di lì a poco i giornali daranno notizia della sua morte.
Vent’anni dopo Manny torna a Los Angeles, ha moglie e figlio, al cinema danno “Singin’ in the Rain”, il gioiello di Stanley Donen del ’52, e se lo va a vedere da solo (allora: in un film che parla dell’arrivo del sonoro, un personaggio entra in un cinema dove proiettano un film che ruota attorno all’arrivo del sonoro: ci mancava proprio una mise en abyme col turbo). Nel buio della sala, commosso al midollo, piange immaginando-sognando una sequenza neanche breve di immagini cardine della storia del cinema, rasoiata all’occhio di “Un chien andalou” compresa, intervallate da colori base a pieno schermo, nelle intenzioni registiche un inno alla seduzione dello sguardo, all’incantamento del cinema, fenice destinata a rinascere sempre dalle sue ceneri.
Un budget di 78 milioni di dollari
Un finale – chiuso da Manny in pacificato sorriso – debordante e irrisolto, in fondo a Ingmar Bergman per dire la stessa cosa e meglio in “Fanny e Alexander” erano bastati alcuni secondi e una lanterna magica. Chazelle, giovane e nostalgico (d’altra parte quando Peter Bogdanovich nel 1971 diresse “L’ultimo spettacolo” aveva solo 31 anni) non riesce, in chiusura di storia, a ricreare la magia delle sequenze conclusive di “La La Land”, col pianista Sebastian (Ryan Gosling) e l’attrice ormai affermata Mia (Emma Stone) emozionalmente sopraffatti da un incontro a molti anni dalla fine della loro storia d’amore, momento tradotto da Chazelle, ben sostenuto dalla musica di Hurwitz, in una commovente rêverie di Mia all’insegna del what if, del cosa sarebbe successo se non si fossero lasciati.
“Babylon” è prodotto da Paramount, alto il budget (78 milioni di dollari), tiepida l’accoglienza e mancata candidatura all’Oscar. Distribuisce da noi in più di 400 sale Eagles Pictures. Curiosità: Chazelle ha girato con l’iPhone nel giardino di casa una prima versione di due ore del film.
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