“Avanti, avanti. Con te o senza di te”. Senza Paolo Pietrangeli, musica e rivoluzione
Quindi, c’era Luca Ronconi, nella nomenclatura dell’arte, sezione teatro. Così come c’erano Luigi Nono, in testa alla sezione “musica nuova”, ed Enzo Jannacci e Francesco Guccini in cima all’elenco dei cantautori amati-stimati dal grande popolo della sinistra italiana. Una platea sterminata e invisibile nelle proiezioni dei mezzi di comunicazione di una massa che ha saputo formarsi coltivando i propri piaceri senza l’aiuto della tv, col passaparola, con i racconti giornalistici soprattutto dell’Unità, mangiando brioche davanti alla radio, libera.
Paolo Pietrangeli stava in testa ai cantori di “lotta senza governo”, posizione solida nonché particolare: quella fama non poggiava sulla sua figura, sulla ricchezza della sua produzione, sullo stile mostrato sui palchi ma sulla strepitosa intensità simbolica di alcuni suoi brani, uno sugli altri, “Contessa”. “Sapesse contessa quei quattro straccioni…” “Se il vento fischiava ora fischia più forte… le idee di rivolta non sono mai morte…”, epica pura, apparentemente senza freni, emotività dilatata all’infinito, senso eroico della sutura lungo la quale si sviluppano i conflitti sociali e politici, omerico.
Cioè, esattamente come era successo a Fausto Amodei – padre, credo, di tutti i cantori dei Canzonieri italiani – del quale milioni di voci hanno intonato “Per i morti di Reggio Emilia” senza sapere di chi fosse e chi fosse “il Fausto”, anche Pietrangeli ha messo al mondo creature enormemente più veloci di lui. Almeno nella prima fase della sua vita artistica.
Il ricordo di quel Primo Maggio del 1982
Ma quando lo incontrai per la prima volta, il Primo Maggio del 1982, a Milano, sul palco della festa dell’Unità dell’Unità– non c’è errore in questa ripetizione – era una star, per quella solidale, paziente, responsabile, romantica e razionale platea. Io, stavo nel gruppo – gli Spleen – che avrebbe suonato dopo di lui e siccome aveva tirato tardi, si scusò per averla fatta così lunga. Fiato sprecato: eravamo tutti felici e orgogliosi di avere a disposizione lo stesso palco dell’autore di “Contessa”, il resto era niente.
Col tempo, diventammo amici. Eravamo tutti amici, oltre che per sempre compagni, con lui, con Ivan Della Mea – mosso da reciproco amor fraterno -, con “il Fausto” Amodei, Gualtiero Bertelli – un pezzo di famiglia che Ivan aveva ribattezzato “Berteo” -, Caterina Bueno, Giovanna Marini – altro pezzo forte della mia “famiglia” – l’imperdibile Rudy Assuntino, Claudio Cormio, il magico, strepitoso, inarrivabile Paolo Ciarchi, Piero Brega. E con Ernesto Bassignano, il “mio” Bax, che tuttavia non apparteneva al gruppone dal momento che, nonostante la sua gloriosa partecipazione al coro del canto di lotta, era nato in un brodo autoriale esterno al feeling dei Canzonieri, molto più intimo e introspettivo.
Fu così, mentre il tempo passava, gli amici sbiancavano e la loro presa sul mondo delle “piazze infiocchettate” – grazie Paolo – veniva diluito dalle nuove e devo dire pallide proiezioni di futuri molto meno radiosi, che iniziai a frequentare un desiderio: li volevo tutti su un palco, mi sembravano, assieme, una ricchezza enorme accantonata con ridicola sbrigatività dalla sinistra storica a caccia di climi anche musicali più distesi e concilianti almeno quanto gli orizzonti che sembrava aver adottato dopo aver buttato il passato, con leggerezza un bel po’ provinciale. Perché era venuto il momento in cui di quella tensione artistica ed emotiva non era rimasta traccia se non periferica, nelle feste dell’Unità.
La festa dell’Unità di Genova
Eppure sapevo, sentivo che oltre ad essere un errore storico questo distacco comportava una ferita per milioni di compagni di tutta la sinistra che continuavano a cantare, a canticchiare, a solfeggiare, a rincorrere quei versi, quelle motivazioni, quella passione, quel particolare senso della frontiera che si annida comunque nell’intelligenza spesso smagliante contenuta in quei testi. Nel 2004, all’ultimo momento, chiesi alla direzione nazionale dei Ds di avere a disposizione un palco della Festa nazionale dell’Unità di Genova per far salire, tutta assieme, quella ricchezza, accompagnata dai suoi più vicini “eredi”, i Modena City Ramblers, carissimi amici anche loro. Me lo diedero, tra le undici di sera e l’una. Una forbice che avrebbe disarmato chiunque, non noi. Era previsto un fiasco e invece fu un successo: almeno duemila persone rimasero inchiodate sulle sedie fino all’ultimo canto.
Al quale mancava la voce di Paolo Pietrangeli. Aveva dato “buca” perché lo avevano richiamato al lavoro, all’improvviso, curava la regìa di pezzi Mediaset. Attività che gli costò parecchio: un brandello di sinistra, incorrendo in una enorme sciocchezza dettata da settarismo e ricerca della “purezza”, non glielo ha mai perdonato e devo dire che lui ci soffriva. Tra l’altro, Mediaset ha sempre ospitato un buon numero di bravi compagni che tuttavia non avevano scritto “Contessa” e quanto fosse grande la sciocchezza compiuta nei confronti di Paolo lo si capisce bene alla luce di questo “vero” paradosso.
Quel concerto sotto la pioggia
Ma si era solo all’inizio della Grande Azione Parallela che avrebbe dovuto riconnettere quel passato d’arte e di cuore a un presente assai più arido di sentimenti e di prospettive politiche e sociali. Infatti, ecco che poco dopo, a fine settembre, grazie all’aiuto del grande Michele Meta, riuscii a conquistare piazza San Salvatore in Lauro a Roma, lungo la direttrice di via dei Coronari, un luogo ormai molto chic scelto per questo, così da sistemare due sere consecutive interamente occupate dalla canzone politica italiana, aggiungendo a quelli del palco di Genova Lucilla Galeazzi, Franco Fabbri – ex Stormy six, nonché uno dei più bravi musicologi del continente – e Leoncarlo Settimelli, carissimo e bravissimo amico mai dimenticato.
Questa volta, Paolo c’era: grande successo, cuore un po’ ballerino ma c’era, con tutta la sua forza. Sfidammo la pioggia, assieme a moltissimi romani con l’ombrello aperto urlando – me compreso, adottato dal famiglione – “patria nostra è il mondo intero” nell’ombelico più perbene d’Europa. Nessuno degli artisti guadagnò una lira, neppure una, né a Genova né a Roma. Per tagliare i costi, molti dormirono a casa mia.
Proprio la forza applicata da Pietrangeli all’emissione della sua voce ha tratto in inganno più di qualcuno nel corso del tempo: pareva che fosse tutto lì, mentre intonava, con il fegato in mano, appiattito sui suoi testi a volte frontisti e invece le cose non stavano così. Paolo era un maestro di ironia, addirittura tagliente, sapeva recitare, sapeva usare le parole, si divertiva a rispolverare arcaismi lessicali, spalmandoli poi su percorsi armonici che invocavano la barricata. Un po’ Springsteen, un po’ Brecht. E poiché mentre gridava “Compagni dai campi e dalle officine” ricordava la forza del grande Bruce in “Born in the Usa”, mi convinsi che nessuno meglio di lui avrebbe potuto stare accanto, una milagrosa sera di qualche anno fa, al solo immarcescibile monumento femminile del folk statunitense, Joan Baez.
La serata con Joan Baez
Con un colpo che può riuscire solo a Furio Colombo – per anni direttore di una Unità rinata e felicissima nelle edicole – , quella sera, Joan Baez si tolse le scarpe ed entrò a casa mia, mentre Furio, accompagnato dalla sua Alice, – tra i miei amici più cari – le portava la chitarra. Così, Joan sedette accanto a Paolo Pietrangeli – avevo invitato anche Giovanna ma era in tour forse in Svizzera – e ad Andrea Satta, leader dei Tetes de bois, con il meraviglioso pianista del gruppo, Angelo Pelini. Suonarono tutti, cantarono tutti, credo che Andrea abbia ancora la registrazione audio di quella serata.
Accadde che “Contessa”, per la prima e forse unica volta nella storia della popular music, si incrociò a pochi metri di stanza con “Where have all the flowers gone”. E Paolo, mediamente inscalfibile dalle situazioni, mi confessò di essersi commosso davvero. Era un duro, molto umano, gentile, sensibile, generoso, ma un duro. Poi, un bel giorno, Ivan mi telefonò, come quasi tutti i giorni per anni, ma con una proposta, in verità non inedita: “Vai sul palco di Sesto Fiorentino a condurre il concerto del primo maggio dell’Istituto Ernesto De Martino, con Paolo Pietrangeli? Sì che ci vai, vero che ci vai?”.
Ci andai. Ecco Paolo, ciao Paolo, com’è? “Così così, lascia stare. Che devo cantare? Non mi sono preparato, quel lazzarone di Ivan non me ne ha dato il tempo…”. Attaccò, un paio di sempreverdi senza i quali non si passa e poi…”E adesso?”, bisbiglia lui. Beh, vai con Karlmarxstrasse… “E chi se la ricorda?”, gli mancavano strofe nel file. Vai che io la ricordo… e attacchiamo: “Se le strade cambiassero di nome, tutt’a un tratto… ci sarebbe in un caso la ragione di chiamarsi soddisfatto… se per esempio corso Umberto si chiamasse Karl Marx Strasse…. è una strada che più grande non ce n’è, Lenin Allée!”. “Lenin Alée”: hahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahahha, ma come gli era venuto in mente….
Era un gigante. E ci farà compagnia finché ci saremo.
(Commemorazione il 24, alle ore 15, presso la Casa del Cinema, e che sia, come avrebbe sempre voluto, una festa e non un funerale).
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