Autoritratto automatico di Umberto Fiori, versi in formato fototessera
I primi decenni del Novecento sono stati attraversati dal dibattito relativo al ruolo che doveva essere riconosciuto alla fotografia poiché, fin da suoi esordi, essa ha mostrato una notevole capacità rappresentativa della realtà ma anche di qualcosa di ben più ampio, che coinvolge la sfera della bellezza, del divertimento e dell’istruzione: accanto al suo ruolo di registratore affidabile dei dettagli peculiari del mondo circostante, la pratica fotografica evidenzia immediatamente la stretta concatenazione con le dinamiche artistiche nel loro complesso.
A fronte di ciò, come bene ha sottolineato Rosalind Krauss, l’archiviazione della fotografia all’interno di categorie predeterminate non consente di svilupparne e comprenderne il valore ultimo e autentico, perché la fotografia costringe non solo a confrontarsi con la sua natura scientifica o artistica ma soprattutto rimanda immediatamente al discorso identitario, allo scorrere del tempo e al rapporto vita/morte.
La contemporaneità, in concomitanza con il dilagare dei social network dove l’immagine fotografica ha assunto un ruolo determinante e nei quali si rafforza l’idea di acquisizione del mondo attraverso il senso della vista, ha riportato al centro il dibattito sulla fotografia, sospesa sul binario democratizzazione/volgarizzazione della pratica; se, da un lato, infatti, le apparecchiature tecnologiche hanno reso immediato e accessibile a chiunque l’esercizio del clic, dall’altra, con la loro semplicità di utilizzo, hanno creato un progressivo processo di allontanamento dallo studio della fotografia, in termini pratici e soprattutto teorici, svuotandola in molti casi dei suoi significati strutturali.
L’ultimo lavoro di Umberto Fiori, Autoritratto automatico, da poco uscito per Garzanti, torna invece a riflettere sulla portata eterocronica e identitaria associata alla pratica fotografica aggiungendo, in questo modo, un altro importante tassello alla sua ricerca, iniziata da quelle case le cui facciate sono la prima faccia con la quale il poeta decide di confrontarsi; perché al centro di questa nuova opera è proprio la faccia – non il volto, né il viso – ritratta dallo scatto anonimo di macchinette disseminate in giro per le città dove Fiori, dall’inizio della sua militanza politica a tempo pieno avvenuta nel 1968, comincia a rinchiudersi di tanto in tanto, da solo o in compagnia, per immortalare sé stesso nello spazio di una fototessera.
La collezione, altro termine chiave dell’opera, che pure potrebbe dare l’idea di un «abnorme esercizio narcisistico» dal quale l’autore non vuole né può difendersi, muove piuttosto dall’intento di tenere traccia delle modificazioni dei tratti del viso e, dunque, della persona nel suo complesso, come se, tra una smorfia e l’altra, tra un sorriso e un’espressione seria, fosse davvero possibile fare la conta degli anni («Ecco: alla fine gli anni / sono passati veramente. / Tanti anni. / Prima cinque, sei, sette, / poi dieci, venti, settanta: così va sempre.»).
Roland Barthes, in La camera chiara, nel mirabile passo dedicato al tentativo di riavvertire la presenza della madre da poco scomparsa mettendo insieme tutte le fotografie che la ritraevano in diversi momenti e fasi della vita, ci dà in parte la misura dell’operazione compiuta da Fiori, ovvero quella di fare dell’oggetto fotografico un tassello fondamentale per tentare la ricostruzione dell’intero; ma se in Barthes il processo riguarda un altro soggetto e viene attuato in modalità retroattiva, con Fiori si assiste alla sovrapposizione tra colui che dà vita al procedimento e chi è stato ritratto in un’ottica proattiva, che consentirà solo a posteriori la retroattività.
Nell’introduzione e poi nell’ottimo botta e risposta tra R (il Ritratto) e V (il Visitatore), Fiori spiega origine, struttura e finalità di questo progetto, anticipando domande e curiosità che potrebbero insorgere nel lettore e, allo stesso tempo, fornendo un basamento teorico importante a questo suo lavoro, in cui il Noi rimane caposaldo ineliminabile e reso evidente dal continuo ricorso alla struttura dialogica.
Sembrerebbe che il poeta di Sarzana abbia deciso di chiudere un cerchio, iniziato da un oggetto inanimato ed esterno a sé come le case, di cui si diceva poc’anzi, fino ad arrivare al sé nella sua espressione più chiara, più inevitabilmente propria, qual è la faccia; tutto questo passando per comportamenti-exempla, i rituali della discussione, gli atri da cui nessuno è escluso, luoghi-interlocutori e poi ancora quegli altri ai quali chi scrive non riesce ad appartenere; eppure, forse, più che alla chiusura di qualcosa, Autoritratto automatico pone di fronte all’inizio e cioè al nucleo pulsante dello scrivere di Fiori, il rapporto con il tempo e con l’identità, questa volta senza più veli, senza più soggetti o oggetti interposti.
Viena allora da pensare che questa raccolta sia opera di consolidamento, ma anche di coraggio e svelamento, in perfetta linea di continuità con una produzione solidissima e coesa e, simultaneamente, fine e incipit di qualcosa sempre presente nella scrittura di Umberto Fiori, che qui riesce a trasformare un libro di poesia in una grande foto-tessera, magari proprio quella che completa e dà senso a tutta la sua nutrita collezione.
MM
Sotto la piazza,
in fondo alle scale mobili,
svoltato l’angolo, dopo l’edicola e il bar
giorno e notte sta accesa la capanna.
Qui porta il pellegrinaggio.
Scorre la tenda grigia.
Ruota il sedile. Sparisce la banconota.
Anno per anno, nel buio al di là del vetro,
torna il miraggio dell’identità.
Attendere prego
Dietro la tenda, in piena luce,
la faccia si nasconde.
Sogna e si aspetta,
come la pupa nel bozzolo.
Anche stasera si affaccia
e brilla, e tremola
la luna in fondo al pozzo.
Raccogliere
Non ci sono occasioni da celebrare
(un matrimonio, un compleanno,
una laurea, una comunione).
Non c’è da rinnovare un documento.
Soltanto identità, ripetizione,
addizione, raccolta.
E ogni volta la stessa solennità,
lo stesso raccoglimento.
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