L’Atlantico, ultimo orizzonte che si teme e si guarda in silenzio
In Portogallo c’è una luce speciale, lo dicono tutti. Ricorda quella della California del Nord, rossa sulle colline di Big Sur, coperte dalla highway ice plant, fiori gialli o rosa, che qui si chiamano chorão, letteralmente “piagnone”. Le due coste oceaniche si somigliano: lo stesso vento, lo stesso rumore assordante delle onde punteggiate di surfisti temerari, le spiagge lunghe su cui si distendono in inverno sargassi bruni, portati a riva dalle mareggiate. E poi certe identiche mattine di nebbia umida e salmastra, che sembra alzarsi in blocco dall’acqua per assalire natura e uomo, avvolgendoli nel suo soporifero abbraccio bagnato. Fino all’ora in cui il sole si leva alto e caldo, e d’improvviso il cielo si fa terso, azzurro, lasciandosi alle spalle il ricordo di quella foschia, per poi tuffarsi nel mare, a fine giornata, tingendo tutto di arancione.
Ma come è possibile – si chiederà il lettore sorpreso – che questa estrema periferia occidentale della vecchia Europa possa in qualche modo ricordare the last frontier della conquista americana?
In realtà, c’è poco da stupirsi, visto che il Portogallo è soprattutto un paese oceanico. L’Atlantico è il suo ultimo orizzonte, per chilometri e chilometri di costa, 832 per l’esattezza. L’oceano, i portoghesi, lo guardano con rispetto, in silenzio. Sono capaci di restare per ore a osservarlo, senza dire una parola, immergendosi nei propri pensieri, lanciando distrattamente una conchiglia in mare. Lo temono, non vi si abbandonano mai fiduciosi, come fanno invece i placidi frequentatori del Mar Mediterraneo. Le imbarcazioni dei pescatori, quelle in legno, ancora molto utilizzate per la pesca in acque non troppo distanti dalla costa, hanno la prua rilevata, perché anche in buona stagione, possono trovarsi a fronteggiare onde alte molti metri: non hanno nulla a che vedere con le barche da pesca dei mari calmi, tengono bene le mareggiate, e i loro marinai, silenziosi e schivi come tutti i marinai, sanno riconoscere le maree e le tempeste in arrivo dall’odore dell’aria.
Allontanandosi dalla costa, ci si imbatte poi nel Portogallo più marcatamente iberico, fino a raggiungere la raia/raya, quei quasi 1200 km in cui Portogallo e Spagna si toccano, gomito a gomito, divisi ora da piccole catene montuose, ora dall’imponenza dei fiumi Douro/Duero e Guadiana, paesi fratelli e nemici a un tempo, memori degli anni trascorsi a ingannarsi per mezzo dei propri astuti contrabbandieri. Addentrandosi verso la Spagna, a sud di Lisbona, si attraversano chilometri di pianure coperte di boschi di querce da sughero, sotto le cui fronde si aggirano quei maialini semi-selvatici che non differiscono molto dai più noti pata negra spagnoli. Sono queste le zone di influenza più araba, una tempo appartenute al grande regno di Al-Andalus, le regioni note oggi con il nome di Alentejo (lett. além-Tejo, ovvero, “oltre-il-Tago”) e Algarve (dall’arabo Al-Gharb, ovvero, “l’Occidente”). Gruppi di ciganos/gitanos si muovono ancora nelle zone di frontiera, ora a bordo di scattanti furgoncini, ora con in mano le redini di un cavallo: sono i kalé, popolo sempre in cammino e sempre osteggiato, cantato da Federico García Lorca e divenuto simbolo dell’arte spagnola noto in tutto il mondo. Parlano anche portoghese, e lo fanno sin dalla fine del 1400, data presunta di arrivo delle prime comunità rom provenienti dalla vicina Andalusia. Il loro è un portoghese caratterizzato da una marcata influenza andalusa, come già documentava Gil Vicente, drammaturgo e poeta del Cinquecento, che nella sua Farsa das ciganas trascrive in modo fedele il linguaggio della comunità Rom lusofona. Un’influenza che diviene evidente quando si ha la fortuna di imbattersi in qualche cantor de flamenco em português.
Al nord, invece, proseguendo verso la Galizia, ci si ritrova immersi in foreste fitte e frondose, percorse da fiumi e torrenti pieni d’acqua che rimbalza estate e inverno sulle grosse pietre lisce coperte di muschi. Si racconta che quelle siano zone di streghe, anzi di meigas – parola che deriva dal latino măgĭca – e di indovini, di lupi mannari e altre creature fantastiche: dicono che si debba fare molta attenzione a non prendere la strada sbagliata.
E poi ci sono le isole. Madeira e Porto Santo, con le coltivazioni di banane e canna da zucchero, le anonas e i maracujá, e una lingua modulata dai primi colonizzatori franco-portoghesi così come dalla vicinanza dei tropici; e l’arcipelago delle Azzorre, nove isole di diversa dimensione che sorgono a metà strada tra le due sponde dell’Atlantico, con i loro vulcani spenti, i laghi e le ortensie, le acque terse blu cobalto, i capodogli e i marinai di Melville.
E certo, ci sono le città, come Porto, rissosa e ridanciana, a dispetto del grigio del suo cielo; Coimbra coi suoi studenti e i suoi professori, ma anche con l’anticonformismo sarcastico dei suoi musicisti rock e blues. E infine Lisbona, la capitale, città complessa, stratificata, sorprendente di jacarandá in fiore due volte l’anno, giardini tropicali e profumo di cannella, l’architettura coloniale e la kasbah dei di vicoli di Alfama e Mouraria; l’azzurro cangiante dell’estuario del Tago, traversato dai cacilheiros, i battelli che ogni giorno collegano le due rive del fiume; i palazzi ricoperti di azulejos e quelli intonacati di colori accesi; lo sferragliare dei tram e il silenzio improvviso delle serate di pioggia, e il rosso del ponte 25 de Abril, memoria della rivoluzione che ha sostituito il tristo ricordo di un feroce dittatore, e che ci riporta all’ardita similitudine da cui eravamo partiti: Lisbona come San Francisco, la Costa Vicentina come Big Sur…
Da questa nostra prima velocissima descrizione risulta forse un Portogallo abbastanza diverso da quell’immagine bidimensionale che lo vuole fatto solo di cieli azzurri e pastéis de nata, di gente semplice e allegra, con l’immancabile statua in bronzo del grande poeta con cui ci si fa i selfie, quel Fernando Pessoa divenuto suo malgrado adesivo da appicciare sulla macchina, al ritorno a casa. Che poi, se c’è un poeta difficile, quello è proprio Fernando Pessoa: lo si può leggere e rileggere per anni, tuttavia si ha sempre l’impressione di aver capito per la prima volta una strofe, o una parola, il che equivale ad ammettere che forse non lo si capirà mai del tutto. Antonio Tabucchi aveva iniziato a leggerlo, a studiarlo e a tradurlo negli anni Sessanta ed ha continuato fino all’anno della sua morte, a riprova del fatto che ci vuole pazienza per capire Pessoa, e anche molta fatica. Insomma, non basta certo comprarsi la maglietta con su scritto mi fanno male la testa e l’universo e bere un caffè nel bellissimo Martinho da Arcada, peraltro ormai perennemente invaso da spagnoli vocianti e piccoli cinesi con la mascherina. Perché le cose cambiano, le città e i luoghi si trasformano, e se ne perde la bellezza fissandoli in una foto di scena.
In queste brevi cronache portoghesi, vorremmo provare raccontare un po’ della complessità del Portogallo, condividere con i lettori frammenti di un discorso in costruzione, facendo conoscere loro aspetti della cultura, della storia e della vita di questo rettangolo atlantico che abbiamo avuto la grande fortuna di poter scoprire nel corso degli anni: scrittori, pittori, musicisti, cineasti, attori, vignaioli e altri personaggi interessanti, immaginari o reali, verranno spesso in nostro soccorso, per dotare questo racconto della polifonia di cui ha bisogno. In modo da non correre il rischio di annoiare o, peggio ancora, di arrogarci scioccamente il diritto di possedere l’unico punto di vista corretto sulle cose. E então, começamos?
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