Rosaria Schifani,
colpita due volte dalla
pervasività della mafia

Vito Schifani era un poliziotto ed era di scorta a Giovanni Falcone. Morì nella strage di Capaci, il 23 maggio 1992, insieme con Falcone e la moglie, Candida Morvillo, e con i compagni Antonio Dicillo e Rocco Montinaro. Guidava l’auto che precedeva quella del magistrato. Vito Schifani aveva ventisette anni, compiuti da tre mesi. Aveva una moglie, Rosaria Costa, e un figlio di pochi mesi, Emanuele.

Vito Schifani

Vito Schifani era un ragazzo, si direbbe adesso, e nelle foto che lo ritraggono mostra appunto la faccia di un ragazzo. Di Rosaria Schifani molti ricorderanno le lacrime e la fierezza di fronte al presidente del Consiglio, Spadolini (“Presidente, io voglio sentire una sola parola: lo vendicheremo. Se non puoi dirmela, presidente, non voglio sentire nulla, neanche una parola”). Molti ricorderanno come disperata ma forte si rivolse ai mafiosi: “Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare. Ma loro non cambiano. Loro non vogliono cambiare…”.

Da quei giorni tragici, Rosaria Costa ha cresciuto il figlio, che si è laureato ed è ora capitano della Guardia di Finanza, e non ha ma smesso di far sentire la sua voce contro la mafia, nei convegni, nelle scuole, nelle piazze. Ora le tocca scoprire che arruolato dalla mafia è stato pure suo fratello, Giuseppe, Pino, un soldato di poco peso, come pare, estorsore, taglieggiatore conto terzi, accusato “d’aver organizzato e coordinato attività estorsive, nonché atti ritorsivi nei confronti di imprenditori e commercianti della zona», associato ai boss dell’Arenella e di Vergine Maria, le borgate palermitane che Rosaria Costa aveva frequentato da bambina.
Si può immaginare l’incredulità di quella donna, così duramente colpita e così determinata nella reazione. Ancora Rosaria Costa si appella ad una naturale considerazione, ad una naturale attesa: “…se le accuse verranno provate”. Se le accuse verranno provate, Rosaria Costa dovrà chiedere ancora una volta ai mafiosi di inchinarsi, ma questa volta dovrà chiederlo in primo luogo al fratello: se fosse davvero un mafioso, dovrà dire ai magistrati tutto quello che sa… Ammesso che una modesta pedina sappia davvero qualcosa.

Il discorso di Rosaria ai funerali

Giuseppe Pino Costa abitava, fino all’arresto, in “una stamberga malandata a due passi dal cimitero” (come racconta la stessa Rosaria Costa). Tre figli, cinquantotto anni, il mestiere di imbianchino. Adesso disoccupato. Non sentiva da anni la sorella. Pare avesse goduto di un particolare favore da parte della mafia palermitana per la sua “lontananza” da Rosaria. Non sappiamo se fosse nella chiesa dei funerali: “qua dentro”, come aveva accusato la sorella, non solo idealmente additando “gli uomini della mafia”.

“Se le accuse verranno provate”, la storia di Giuseppe Pino Costa dimostrerà per l’ennesima volta che criminalità organizzata, si chiami mafia, si chiami ‘drangheta, si chiami camorra, o altro, è ovunque, da Nord a Sud della penisola, pervasiva, tentacolare, un mostro tenace che si abbatte e che si rialza e si riproduce, in nome del denaro, in nome della ricchezza, nei quartieri dove si spaccia la droga, nei traffici tra un emisfero e l’altro, nei grattacieli della grande finanza, nei centri commerciali, nella spazzatura delle discariche abusive nelle filiere del turismo… In famiglia, pure.

Giuseppe Costa

Una gigantesca impresa criminale (e siamo ancora tra mafia, ‘drangheta, camorra, sacra corona unità, siamo tra la “criminalità organizzata”) che fattura secondo le stime 137 miliardi all’anno, con utili che superano i cento miliardi, con una liquidità (soldi in mano, quindi) che ammonta a sessantacinque miliardi. Una impresa la più grande di questo paese, un’impresa ormai globalizzata, tra le più efficienti, che potrebbe aver affidato qualche infima briciola dei suoi utili anche all’imbianchino disoccupato Giuseppe Costa. La mafia è comunità e non a caso si parla e si scrive di “famiglie mafiose”. La mafia paga chi lavora con la mafia, assiste i detenuti, assiste i loro familiari.

Perché meravigliarsi se tanti, troppi, compreso Pino Costa, le si affidano? Perché chi ha vissuto da vicino – come ci si immagina – le conseguenze di un viaggio nella morte come quello compiuto dall’agente Vito Schifani dovrebbe risultare in qualche modo liberato dalle tentazioni? Chi ha visto il volto assassino della mafia…

La morte degli altri non redime nessuno e Pino Costa, con quel cognome e quella parentela, ben nota ai mafiosi di Palermo, si sarà sentito protetto sotto un ombrello: nessuno avrebbe mai potuto sospettare di mafia il fratello di quella donna, che, piangendo in chiesa la morte del marito, aveva gridato la sua condanna e aveva avuto la forza di intimare: mettetevi in ginocchio.