Per Antonio Megalizzi
un riconoscimento col
tesserino da giornalista
E così alla fine avrà un tesserino color bordeaux da giornalista… Che senso ha? Che senso ha dare ad un ragazzo ucciso in una strada di Strasburgo, a un mercatino di Natale, un pezzo di carta che non consolerà nessuno? Se mi commuovo a chiederlo, a chiedermelo, è perché per (tanti) giornalisti un senso, profondo, ce l’ha. Noi, gli sciacalli come ci chiamano dalle parti del governo, i giornalisti, o almeno tanti di noi, che non conoscevamo Antonio Megalizzi, che non sapevamo niente di lui, oggi ci sentiamo in debito: perché era un giovane pieno di passioni, che amava la radio, la politica, il giornalismo, l’Europa, tanto da andare volontario per seguire i lavori del Parlamento per delle radio universitarie, un giovane che giustamente tutti hanno definito, senza tanti giri di parole, un giornalista bravo e onesto. Anche se quel tesserino non ce l’aveva. Anche se a Strasburgo c’era da volontario. Anche se guadagnava due lire…
È l’unico riconoscimento che possiamo dargli, ora che ha perso brutalmente la vita, perché per noi, per tanti di noi (“sciacalli”, “puttane”) vuole ancora dire molto: vuol dire autonomia di informare, vuol dire stare a schiena dritta davanti al potere, vuol dire non accettare la prepotenza di chi vuole addomesticare l’informazione. Vuol dire passione. E perché sappiamo che Antonio Megalizzi ci teneva e stava completando le pratiche per entrare nell’elenco pubblicisti dell’Ordine dei Giornalisti e perché – come aveva detto a una collega – il suo sogno era di “di riuscire un giorno a farcela, l’idea è continuare a fare quello che faccio ora a Strasburgo ma in maniera continuativa, perché ancora non esiste un media service giovane che si occupi di Unione europea”.
Questo ragazzo di 28 anni, che parlava dalla radio di Europhonica, doveva essere uno della generazione che verrà. Uno dei tanti giovani precari, sottopagati, sfruttati, maltrattati giornalisti di questo Paese, che non mollano nonostante tutto, che sono pieni di lauree, di master, ma soprattutto di passione, che sono “meglio” e che sapranno far meglio, e difendere i valori di democrazia e internazionalismo. Ecco perché ci smuove emozioni. Non perché era “l’italiano morto a Strasburgo” insieme a un profugo afghano, a un turista thailandese, a cittadini francesi, in una incredibile guerra dell’internazionale del terrore: è invece perché noi giornalisti (tanti di noi) lo riconosciamo, ci riconosciamo in quella passione che lo aveva portato a Strasburgo, per inseguire la politica e l’Europa e raccontarle a una radio universitaria.
Il comunicato è scarno: “Il presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige Mauro Keller, nell’esprimere profondo cordoglio, annuncia che nei prossimi giorni verrà consegnato ai famigliari il tesserino di iscrizione all’Ordine del giovane reporter”. Un comunicato arrivato mentre sui social, nelle chat, nei gruppi di giornalisti, in tanti lo chiedevano. Perché fare il giornalista non vuol dire entrare in una casta, ma avere la passione di inseguire e raccontare i fatti. Come questo ragazzo.
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