Anatomia di una convivenza,
fame e dolcezza nei versi di Leporatti
Com’è difficile convivere, in questo secolo di solitudini. Convivere significa mettersi a nudo, trascinare in casa le scarpe sporche di fango, mostrare gli spigoli di una personalità che all’esterno, per strada e nei locali, eravamo riusciti a nascondere, almeno per un po’. In questa raccolta che è una dichiarazione d’amore e di fragilità, di bisogno e fame, Arzachena Leporatti, in Anatomia di una convivenza, attraversa il buio e la luce della vita di coppia, la difficoltà ma anche la necessità di unirsi e fondersi in un corpo solo.
Il corpo e/è la casa
Il corpo o, meglio, l’interazione dei corpi all’interno della casa, nel luogo della convivenza, è il vero filo conduttore della silloge. Il corpo si mescola alla casa, diventa la casa («Eravamo […] case vuote in cerca di affittuari», o ancora «occhi smerigliati come le finestre che danno fuori»). Ma il corpo è anche natura, è anche elementi: lei può essere liquido per scorrergli attraverso e colmare le sue crepe, ma anche sasso immobile, così come lui può farsi pianta ma anche pietra e terra. E se il corpo è spesso qualcos’altro (casa, sasso, terra), talvolta riesce a emergere nella sua verità biologica in quanto pelle, sangue, organi, scheletro.
di tutte le tue parti
(se dovessi decidere)
salverei la schiena
la taglierei dal resto del corpo
ne farei un fagotto
stretto a me ovunque
pesante e faticoso
al profumo di lavanda e funghi secchi
di lenzuola e pigrizia
di germogli di famiglia
la tua schiena è lunga e spessa
come uno scudo
picchiettata di nei
li lecco e li ingoio
uno ad uno
L’anatomia che dà il titolo alla raccolta può farsi quindi anche letterale, ma non solo. A essere realmente analizzata e spogliata è la convivenza, il vivere insieme che talvolta sembra offuscare tutto ciò che c’è stato prima («dove siamo stati prima di essere qui», e ancora, «prima di questa vita ne ho vissute altre» sono, non a caso, gli incipit di due componimenti della prima parte della silloge). Vivere insieme, con-vivere, sfuma i contorni dell’io, mescola e confonde lui e lei, li fa perdere e ritrovare, uniti da un filo che è al tempo stesso conforto e condanna. L’ossimoro accompagna ogni poesia, in cui la leggerezza del vento fa da contraltare alla fissità del sasso, il pieno risponde al vuoto («Eravamo anfore conche e vuote/[…] poi qualcuno ha detto qualcosa e siamo diventati/scatole piene di oggetti»).
Dolcezza e fame
Che questi due corpi, queste due anime, siano uniti sotto lo stesso tetto per amore è una verità nascosta tra le pieghe dei versi. Questo amore, però, sa anche mostrarsi in forma cannibale, nel bisogno di assorbire l’altro, di farlo diventare parte di sé, del proprio corpo. La dolcezza, quando c’è, arriva a tratti, come un soffio di vento da una finestra dimenticata socchiusa. Allora emergono il calore di un vivere quotidiano condiviso, le coperte da rimboccare, gomitoli soffici da seguire per non perdersi nel labirinto.
vorrei per sempre battere i piedi
su questo pavimento ruvido
colpirti con le mie novità e i pensieri acerbi
vorrei per sempre interromperti i gesti e guidarli
altrove dove tu non vedevi, completarli insieme
vorrei per sempre diventare gomitolo soffice e filo teso
cambiarci forma e ritrovarci comunque.
Il verso è irregolare, e la sua musicalità non risiede nel ritmo ma nelle verità da far emergere, cosicché ogni componimento riflette l’ansia di dire del parlato, il bisogno di comunicare, i momenti in cui ci si ferma a prendere fiato e quelli in cui il verso è così lungo che è costretto ad andare a capo da sé, per farsi spazio nel bianco della pagina. C’è l’urgenza di farsi ascoltare e quella di essere compresi.
Nella convivenza si incontrano e si scontrano i dolori personali, i buchi neri che entrambi custodiscono nell’anima, e condividerli nell’intimità della casa significa anche cercare una cura, un nutrimento nell’altro, nonché ferirsi senza farlo apposta, pestarsi i piedi, urtare per sbaglio contro gli spigoli dell’altro. Eppure, al di là delle ferite e delle attese non sempre soddisfatte, resta la speranza di un nuovo inizio, la metafora dell’aratro che, anziché rimanere immobile in mezzo alla pascoliana maggese, prepara la terra alla nuova stagione.
come un aratro mi prepari
per la nuova stagione
cresceranno nuovi germogli
ancora più profumati
e resistenti
(Arzachena Leporatti, Anatomia di una convivenza, Interno Poesia 2018)
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