E dalle Regioni finora solo 4 donne grandi elettrici
Una donna sul Colle: con l’avvicinarsi delle elezioni per il Presidente della Repubblica si sono succeduti appelli, discussioni nel mondo femminil-femminista, timidi sostegni e marcate prese di distanza. Politica della differenza, femminismo intersezionale, democrazia paritaria, emancipazionismo e quote: nella discussione molto si è confrontato e mescolato. Una donna purché sia? No grazie, hanno risposto in molte. Altre, invece, una donna sul Colle la vorrebbero al di là della sua appartenenza, arrivando persino a digerire il nome di Giorgia Meloni.
Sarebbe la prima volta, si dice, i tempi sono maturi, gli esempi internazionali non mancano. E se a parole nessuno nega la legittimità della richiesta, la politica ha quasi ignorato i segnali provenienti dalla società civile.
Il potere dagli uomini agli uomini
L’automatismo nella trasmissione del potere tra uomini – di cui ha spesso scritto la giornalista e filosofa Ida Dominijanni – si è palesato anche in questi giorni nelle votazioni per la scelta dei grandi elettori, espressione dei territori. Ciascun Consiglio regionale, infatti, come stabilito dall’articolo 83 della Costituzione, è tenuto ad indicare tre suoi rappresentanti con la sola eccezione della Val d’Aosta che ne nomina uno. In tutto 58 rappresentanti. Nonostante non vi siano vincoli particolari sulle figure regionali che andranno a integrare il Parlamento in seduta comune per l’elezione dell’inquilino del Quirinale, esiste una prassi consolidata per cui a Roma di solito vengono inviati il presidente della giunta regionale, il presidente del consiglio regionale, un rappresentante del principale partito di opposizione.
Al momento in cui scriviamo, 17 Regioni si sono già espresse per un totale di 49 delegati che dal 24 gennaio parteciperanno alle elezioni del presidente della Repubblica. Peccato che le donne siano solo 4 – delegate da Umbria, Campania, Abruzzo, Puglia –e rappresentino un risicato 8 per cento, in una partita così incerta da rendere il voto dei grandi elettori regionali tanto più importante. Nessun sforzo di modificare la consuetudine, nessuna rinuncia alla “trasmissione di potere tra uomini”.
Le deleghe espresse dalle Regioni sono anche una cartina di tornasole di quanta poca strada o meglio, di quanti passi indietro il nostro paese abbia compiuto sul piano della rappresentatività politica femminile. Prima delle elezioni amministrative dell’ottobre 2021 – scrive il sito Openpolis – “erano 10 i Comuni capoluogo di provincia con una donna alla guida della giunta comunale: una quota decisamente bassa, il 9,26%, che dopo le elezioni si è ulteriormente ridotta al 5,56%”.


Tra Nilde Iotti e Tina Anselmi
Alla vigilia delle precedenti elezioni presidenziali sul sito di Noi donne, circolava una petizione in cui si chiedeva piena rappresentatività politica a partire dalla Presidenza della Repubblica e si denunciava come inaccettabile che tra i grandi elettori la parte femminile fosse così insignificante da restare sotto al 10%. Il divario, ahimè, non si è colmato. Al contrario.
Nella storia repubblicana solo una donna, Nilde Iotti, ebbe nel 1992, al quarto scrutinio, un numero insufficiente ma corposo di voti (256) mentre Tina Anselmi, prima donna ad essere nominata ministro, ne strappò 18 nella stessa tornata. Andò ancora peggio nelle successive elezioni presidenziali, quando le politiche raccolsero appena una manciata di voti: tra queste Emma Bonino e Rosa Russo Jervolino. Del resto, la politica italiana non fa che riflettere e amplificare i profondi divari di genere della società, i cui indici in fatto di parità, ci collocano in fondo a molte statistiche europee. Un dato su cui dovrebbero riflettere la politica e lo stesso movimento delle donne perché non sarà un appello che porterà al Quirinale le donne ma le battaglie nella società e nei territori.
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