Altro che alluvione. Il consumismo ha vinto. Se non rinunceremo a qualcosa
Sto leggendo un bel libro dedicato a Italo Calvino (ricordando che nacque cento anni fa a Santiago de Las Vegas de La Habana), un libro scritto da un giornalista molto bravo, Fabio Gambaro, consulente editoriale e organizzatore di eventi, che vive a Parigi (è stato anche direttore dell’Istituto italiano di cultura in Rue de Varenne). Il libro si intitola “Lo scoiattolo sulla Senna” e racconta il soggiorno dello scrittore nella capitale francese (il titolo, scrive Gambaro, rimanda allo “scoiattolo della penna”, definizione che adottò Elio Vittorini in un articolo sull’Unità, recensendo “Il sentiero dei nidi di ragno”).
Per spiegare la scelta parigina di Calvino (che viveva allora a Roma), al di là delle questioni familiari, Fabio Gambaro cita il fastidio per certa società dello spettacolo tutta italiana, per il chiacchiericcio pseudo culturale, per l’effluvio delle parole inutili quanto sollecitate. Leggiamo Calvino: “certe cose solo a dirle diventano trombonate”, “il rumoroso momento che stiamo attraversando apre un’epoca ideale per parlare e pubblicare il meno possibile e cercare di capire meglio come sono fatte le cose”, un “concerto di affermazioni generiche, di precetti operanti solo nel regno delle intenzioni, di previsioni campate in aria”.
L’alluvione nell’era della chiacchiera
Si era a metà degli anni sessanta, quando si attendeva il tg della Rai per sentire le notizie, non esistevano fb, tik tok, twitter, quando si telefonava con il gettone. Eppure la marea della chiacchiera montava già, per quanto sarebbe stato difficile anche solo immaginare l’incommensurabile vociferare presente, mezzo secolo oltre, il vociferare a vuoto, che annichilisce ogni tragedia, una guerra, un terremoto, l’inondazione catastrofica di questi giorni, tra promesse, propositi, accuse, critiche, strumentalizzazioni, bugie, mezze verità, mezze bugie.
Di citazione in citazione, vado al meno nobile (rispetto a Calvino) Fatto quotidiano, che riassume le “fesserie d’autore sull’alluvione”, cominciando da una esternazione televisiva del direttore di Libero, Sallusti: “Forse in Emilia in questo campo c’è troppo poco cemento, se avessero messo un po’ più di cemento sugli argini o dove andava messo probabilmente i danni sarebbero stati minori. Dopodiché, nel 1960 o poco prima ci fu l’alluvione del Vajont poco lontano da lì, morirono quasi 1000 persone e non c’entra l’allarme climatico, quando la natura decide di fare quelle cose lì non è questione di allarme climatico, è questione che accade ed è sempre accaduto”.
Lasciamo stare il cemento ad alzare (quanto?) gli argini, ma Sallusti, che non è un giovanotto e che, per il ruolo che esercita, non è esente dall’obbligo della memoria, dovrebbe ricordare che fu il cemento della diga voluta dalla Sade, chiudendo la valle di Erto, a provocare il 9 ottobre 1963 la frana del monte Toc e a rovesciare una cascata fangosa su Longarone e sulla valle del Piave, uccidendo migliaia di persone. Persino a guidare Giampaolo Pansa in un memorabile articolo per la Stampa: “Scrivo da un paese che non esiste più: spazzato in pochi istanti da una gigantesca valanga d’acqua, massi e terra piombata dalla diga del Vajont…”.
Cosa c’è di “naturale” nel disastro del Vajont?
Sallusti dovrebbe ricordare che non fu la natura cattiva a provocare quel disastro, ma la voglia di soldi della Sade e dei suoi massimi dirigenti, una speculazione in vista della cessione della società elettrica allo Stato, e che i pericoli conseguenti alla costruzione di quella muraglia furono denunciati anni prima anche per opera di una coraggiosa e generosa giornalista dell’Unità, Tina Merlin (che fu pure querelata dalla Sade e assolta dal tribunale di Milano).
Repubblica, ammonendo in prima pagina che “servono 5 miliardi” (a tanto ammonterebbero i costi per “frutteti distrutti, allevamenti senza animali, fabbriche da ricostruire, strade spazzate vie”) chiama all’opera uno scrittore, Marco Belpoliti, per un romanzo del Po. Belpoliti comincia dagli antichi romani, perché furono i legionari a bonificare la pianura, distruggendo la foresta e coltivando via via i campi. Non si sa quanti fossero i legionari al lavoro, qualche decina, qualche centinaio, chissà… Pochi comunque, pochi rispetto ai quattro/ cinque milioni d’oggi, poche capanne rispetto alle milioni di case, palazzi, ville, villette e capannoni d’oggi, pochi viottoli rispetto a strade, autostrade, ferrovie d’oggi. I fiumi, quando pioveva troppo se ne andavano liberamente e le mareggiate non spazzavano cabine, ombrelloni, rotonde sul mare, eccetera. Non si può sapere, almeno io non lo so, quale fosse il pil procapite d’allora, oggi supera i 35 mila euri all’anno.
Scaramucce politiche
La politica fa i suoi balletti: è colpa di Bonaccini, non è colpa di Conte oppure è colpa di Berlusconi, destra o sinistra, è colpa di una secolare inefficienza, della burocrazia, dei veti, della corruzione… Per sete di giustizia, potrei pensare che non sia colpa della Meloni, che pure, come ci avverte ancora il Fatto, ha tagliato del 40 per cento i fondi al Bacino del Po (“l’ente per la sicurezza idroegeologica del Nord”). Troppo fresca la Meloni per sentirsi addosso qualche responsabilità, probabilmente, se non quelle implicite nel suo futuro di capa del governo, a partire dal prossimo consiglio dei ministri di martedì.
Il Fatto però non rinuncia a prendersela con Elly Schlein, fresca di incarico anche lei, che vorrebbe più fondi del Pnrr “sulla prevenzione”. Cioè interventi sul territorio, sui fiumi, ovunque sia necessario. Replica il Fatto: “ Proposito lodevole, ma che aggira il nodo centrale: come ammesso dal governo, il problema del Pnrr non è certo la mancanza di soldi, ma la capacità di spenderli. E così è per il dissesto idrogeologico, per il quale le risorse ci sono, ma si tratta di vedere se saremo in grado di metterle a terra”. Proviamoci, magari.
La memoria labile

Scaramucce, che accreditano però i più brutti pensieri su questo paese e sulla sua politica.
Ma è solo roba nostra? Ho ancora in mente le immagini della Germania e del Belgio allagati. Soltanto due anni fa (estate 2021), più di duecento morti, miliardi di danni. Ho letto che ancora la ricostruzione è in corso. Ho chiesto in giro: nessuno si ricordava di quei paesi che affondavano nel fango. Eppure le immagini ci inseguirono per giorni e giorni. Come penso ormai nessuno si ricordi del terremoto in Turchia e in Siria, nel febbraio scorso: sessantamila morti.
Sarebbero infiniti altri gli esempi e in giro per il mondo le rovine si sommano alle rovine. Ma vi può essere una relazione tra un episodio e un altro? Secondo molti studiosi succede proprio così: i cambiamenti climatici sarebbero in grado anche, ad esempio, di influenzare i movimenti delle placche tettoniche, le quali scontrandosi danno luogo appunto a fenomeni tellurici. Una teoria. La certezza è il “dopo” che mette in moto il tradizionale percorso: soccorrere (come si può), riparare (del tutto è impossibile e i tempi sono lunghi), prevenire (una speranza).
A cosa siamo disposti a rinunciare?

Mai che ci si chieda però a che cosa è necessario rinunciare. Eppure tutto, terremoti, maremoti, inondazioni, il recente covid (ammesso che l’epidemia sia stata definitivamente vinta), persino i disboscamenti degli antichi legionari romani, sta a dimostrare che a qualcosa dovremmo rinunciare, che avremmo urgente bisogno di una riforma radicale dei nostri modelli di vita, individuali e collettivi, collettivi fino alle politiche degli Stati.
Se qualcuno sostenesse che c’è un rapporto tra la guerra in Ucraina e le acque fangose che rivestono la Romagna verrebbe giudicato un po’ pazzo. Una canzoncina di qualche decennio fa diceva: “mettete dei fiori nei vostri cannoni”. Fosse stato così, forse ci sarebbero meno morti e qualche terreno allagato in meno e l’aria sarebbe più pulita. Qualcuno ha calcolato fin dove arrivano i fumi delle bombe, una nube tossica: anche la guerra inquina.
Salvare il consumismo o salvare il pianeta
In una grande manifestazione giovanile contro l’inquinamento, “per salvare il pianeta”, guidata da Greta Thunberg, migliaia di partecipanti accesero le luci dei loro telefonini, come per dar conto della loro forte e battagliera presenza. Uno studioso fece il calcolo dell’energia bruciata in quel gesto e dell’inquinamento provocato. Saremmo disposti a rinunciare ai nostri telefonini o, almeno, all’uso smodato di tali aggeggi? Saremmo disposti a rinunciare all’uso smodato delle automobili o degli aerei, ormai divenuti grazie alle tariffe low cost taxi del fine settimana all’estero…
Semplicemente un limite di velocità in città, un divieto di sosta, una pista ciclabile mettono a rischio un risultato elettorale e quindi un’elezione, e tagliano mercato e produzione. Nessun potere politico o economico sarebbe disposto a porre qualche freno: ne va dei bilanci pubblici e privati, economici e politici, ne va dei profitti dei grandi gruppi. Ha vinto il consumismo, ovunque, fino all’aria che sporchiamo, contro di noi perché stiamo diventando incompatibili con questo pianeta, nell’illusione di poterlo comunque governare.
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