All’Italia 30 miliardi in più
dall’Unione, ma i governi limitano
il ruolo della Commissione

Sui fondi per la ripresa dell’Europa dagli effetti devastanti dell’epidemia alla fine di tre giorni di scontri furibondi a Bruxelles si va verso un compromesso. L’ammontare del Recovery Fund dovrebbe rimanere (salvo sorprese) sui 750 miliardi che erano nella proposta della Commissione UE e dovrebbe essere corretto, a favore dei primi, il rapporto tra prestiti e contribuzioni a fondo perduto. Nel rush finale le cifre ballano, ma dentro un range tra la parità, 350 a 350, e un lieve sbilancio a favore dei prestiti (400 o 420 a 350 o 330) che comunque salverebbe sostanzialmente il principio della solidarietà che fu a fondamento del piano messo sul tavolo a suo tempo da Emmanuel Macron e Angela Merkel, della coraggiosa proposta della Commissione e dell’atteggiamento negoziale che i grandi paesi, Germania, Francia, Italia, Spagna, e il fronte dei paesi meridionali hanno mantenuto e difeso contro l’aggressione dei cosiddetti “frugali”. Secondo i primissimi calcoli, tutti da verificare, il nostro paese potrebbe contare su una dotazione complessiva di 209 miliardi, 82 di sovvenzioni e 127 di prestiti a bassissimo tasso. Per strappare questo risultato per il Fondo, i leader hanno deciso il mantenimento, se non un deciso aumento, dei rabates, ovvero gli sconti sulle contribuzioni al bilancio comunitario dei paesi nordici.

Giuseppe Conte

Fin qui le cifre, che tutto sommato consentono a Giuseppe Conte di tornare in Italia a testa alta. L’Italia ha ceduto sul campo una fetta di risorse, ma ha avuto un ruolo centrale e importante nella battaglia per respingere l’assalto al ridimensionamento guidato dall’olandese Mark Rutte e dall’austriaco Sebastian Kurz, sostenuti con un appoggio sempre più esitante dai leader danese, svedese e finlandese. Ma non ci sono solo i numeri su quali è necessario ragionare alla fine di questa defatigante prova di tenuta dell’Unione europea. Il confronto al vertice ha mostrato, ancora una volta, tutti i problemi politici e istituzionali che derivano dall’incompiutezza della costruzione europea. Si era partiti bene, con una iniziativa che per la prima volta prevedeva una vera condivisione, non solo dei debiti ma anche e soprattutto dei princìpi e dell’iniziativa, dello spirito dell’Europa, per dirla con un po’ di retorica. La Commissione si comportava in qualche modo da embrione di governo europeo annunciando l’intenzione di dotarsi di un vero bilancio adeguato ai bisogni del governo dell’economia continentale e delle sue necessarie trasformazioni e facendone lo strumento di garanzia di bond comuni da vendere sui mercati per sostenere i paesi in base all’urgenza delle loro necessità.

Ha prevalso il metodo intergovernativo

Quello che è successo a Bruxelles negli ultimi tre giorni ha compromesso molto, troppo, di quei propositi e di quello spirito. È prevalso il più gretto metodo intergovernativo. L’iniziativa della Commissione è scomparsa quasi. La stessa presidente Ursula von der Leyen, solitamente propensa a dichiarare su tutto, non si è quasi vista né sentita. L’iniziativa è stata tutta dalla parte dei leader dei paesi e le uniche mediazioni da parte delle istituzioni brussellesi sono venute da Charles Michel, il presidente del Consiglio, con una serie di proposte di mediazione sempre più centrate sul ruolo dei governi.

Non è la strada giusta. Non solo agli occhi di chi ha a cuore lo sviluppo dell’integrazione politica dell’Europa, ma anche, più immediatamente, per il futuro della gestione dei soldi che verranno stanziati. Lo schema della Commissione (e anche quello del piano Macron-Merkel) era semplice e chiaro: prestiti e sovvenzioni sarebbero stati controllati dalla Commissione stessa, sulla base della rispondenza o meno ai bisogni individuati collettivamente dei piani di investimenti nazionali presentati dai paesi. Lo scontro più duro, al vertice, è stato proprio su questo. Ed è cominciato con una provocazione di Rutte, che ha rivendicato addirittura l’adozione del principio dell’unanimità: di fatto l’affermazione di un diritto di veto.

Mark Rutte

Conte ha gridato allo scandalo per questa evocazione del principio dell’unanimità. Ha fatto bene, ma forse può rimproverare a se stesso e un po’ a tutto lo schieramento della politica italiana una certa colpevole reticenza, in passato, a battersi nelle sedi comunitarie proprio perché si introducessero i metodi delle decisioni prese a maggioranza. Senza ricordargli, per amor di patria, che fu proprio lui, in un paio di occasioni quando il suo alleato di allora Matteo Salvini sbraitava promettendo sbattimenti di pugni sui tavoli di Bruxelles, a minacciare l’uso dell’arma del veto…

Un compromesso macchinoso

Il compromesso che, per quanto se ne sa, è stato fissato sulla carta alla fine è un po’ bizzarro e molto macchinoso. Il giudizio sui piani nazionali e sulla loro attuazione spetta alla Commissione, ma se un governo dovesse decidere (in base a quali elementi di fatto non è per niente chiaro) che uno dei paesi beneficiari non sta obbedendo ai requisiti avrebbe a disposizione un “freno d’emergenza”, ovvero la possibilità di bloccare l’erogazione dei fondi temporaneamente chiedendo il parere del Consiglio o dell’Ecofin, il consiglio dei ministri economici e finanziari. Che il “freno d’emergenza” sia uno strumento ipotizzato pensando proprio all’Italia è più che un sospetto, giacché i giornali olandesi, riferendo giudizi di ambienti vicini a Rutte, non hanno mancato di citare espressamente certe “leggerezze” di spesa praticate da noi, a cominciare da quota cento in materia di pensioni. Il fatto che sull’argomento l’opinione degli olandesi sulla follia economica del costosissimo regalo fatto a qualche centinaio di migliaia di pensionandi non sia per niente infondata, nulla toglie alla gravità del pregiudizio.

Bisogna vedere come questo pasticcio verrà accolto dal Parlamento europeo, che dovrà, ovviamente, discutere e votare l’esito del Consiglio. Il presidente David Sassoli è stato abbastanza esplicito sul fatto che non verranno accettati compromessi al ribasso. Il parlamento, oltretutto, dovrà vigilare anche sull’altro grande capitolo della strategia europea per la ripresa: il bilancio. Sarà necessario vigilare che i fondi destinati al Recovery Fund siano coerenti con il Next Generation EU, che è un piano molto più ampio della sola ripresa degli investimenti post-epidemia, a cominciare dalle misure di abbattimento delle diseguaglianze e di sostegno all’occupazione e dai programmi di riconversione verde dell’economia.

David Sassoli

Il problema del bilancio

Questo capitolo è rimasto piuttosto in ombra al vertice di Bruxelles, ma è lecito prevedere che gli scontri che si sono visti in questi giorni si riproporranno quando entrerà nel vivo la discussione sul bilancio pluriennale e si dovrà decidere quali e quante risorse proprie – tasse europee che non gravino sui contribuenti dei singoli stati, come la carbon tax, la Tobin tax, la tassazione delle grandi multinazionali che ora eludono il fisco e via elencando – andranno mobilitate.

Comunque sia, tutto lascia pensare che la “soluzione” trovata per soddisfare le fregole intergovernative del fronte “frugale” sarà fonte in futuro di problemi, incertezze e contenziosi. E l’Italia, in questo, non è proprio senza colpe. A parte quelle più antiche, come i regali ai pensionandi e un reddito di cittadinanza che viene apprezzato a Bruxelles e nelle cancellerie come strumento per lenire la povertà ma giudicato severamente per la parte dell’avviamento al lavoro, ce ne sono anche di recenti. È stata una debolezza del governo Conte, per esempio, presentarsi al vertice senza aver neppure abbozzato uno straccio di piano di utilizzo delle risorse che andiamo a chiedere. I nostri partner in Europa hanno abbastanza confidenza con le circonvoluzioni della politica romana per sapere che i rinvii continui di atti dovuti sono il frutto delle divisioni tra i partiti, ma certo questo non aiuta. Inoltre, c’è l’atteggiamento sul MES. È fin troppo facile per i critici-critici dell’Italia argomentare che c’è una bella incongruenza tra la determinazione con la quale Roma chiede i soldi del programma Next Generation EU con la raccomandazione a farli arrivare il più presto possibile e il continuo e (per loro) inspiegabile rinvio dell’annuncio dell’adesione al MES.