Alle frontiere d’Europa
Il rapporto di Medici
per i diritti umani
L’ultimo rapporto di Medu, Medici per i diritti umani, parla chiaro: la pandemia non scoraggia i migranti a tentare il Game e, se ce la fanno, ad oltrepassare anche il confine italo-francese per arrivare in Francia, quindi nell’Europa continentale. L’Alta Valle di Susa continua a rappresentare un importante crocevia con i suoi circa 1000 passaggi nei soli primi quattro mesi del 2021. Tra questi, “molte famiglie, spesso numerose, di donne in gravidanza, di minori non accompagnati e di persone in età avanzata”, nonostante i rischi, dovuti in inverno alla neve e alle temperature particolarmente rigide, e a una situazione di grave sovraffollamento nell’unico rifugio rimasto dopo lo sgombero della Casa cantoniera, dove si offriva assistenza alle persone in transito.
L’Europa dia risposte alla crisi umanitaria alle frontiere
Medu chiede ancora una volta “un’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni, in risposta alla preoccupante crisi umanitaria in corso e ai bisogni delle persone in transito; il potenziamento e ampliamento delle strutture di accoglienza a bassa soglia e l’apertura del rifugio Fraternità Massi-Talità Kum di Oulx 24 ore su 24; l’allestimento di un presidio medico accessibile a tutti i migranti, indipendentemente dallo status giuridico, che fornisca assistenza di base, ma anche un’attenzione ginecologica e pediatrica; la ricerca di soluzioni umanitarie per le persone più vulnerabili che si trovano ad attraversare il confine in condizioni di elevato rischio, nel tentativo di eludere i dispositivi di controllo frontaliero”.
E’ emergenza anche in Bosnia
Aver “vinto” il Game è il traguardo più grande, tuttavia non finisce lì, ci sono altri ostacoli da superare. Ci siamo già occupati della rotta balcanica, la parte più dura del loro viaggio di speranza. Dispersi nei boschi, inseguiti da poliziotti e cani, spesso vilipesi dalle popolazioni locali, incarcerati, torturati, rispediti indietro, sistemati in campi profughi improvvisati e in rifugi di fortuna, un numero significativo di persone riesce però a trovare accoglienza in Bosnia anche in due grossi campi governativi, quello di Blazuic, dove vivono 1200 uomini adulti, e quello di Usivac, dove sono in 500 tra famiglie e minori non accompagnati.
A Sarajevo con quattro attiviste
Dopo aver fatto una colletta tra amici da destinare all’associazione Pomozi ba, quattro torinesi, Mirca, Olga, Silvia e Ursula, una giovane catalana, tutte impegnate in Torino per Moria, il comitato pro migranti nato in occasione della crisi umanitaria nel campo profughi greco, si sono recate il mese scorso a Sarajevo per fare volontariato nei due campi.
I migranti sono sistemati in container, sono perlopiù pakistani, afghani, etiopi, eritrei; condividono con gli altri nella loro stessa condizione il tragitto: Turchia, isole greche, Grecia continentale, campi di Atene o Salonicco, Sarajevo, arrivandovi attraverso la Macedonia o la Bulgaria.
“Nei due campi abbiamo visto un parco giochi per bambini, un presidio medico e una grande mensa, dove danno una mano come volontari anche alcuni profughi, mentre è la Bosnia ad assumere i cuochi e gli aiuti. – racconta Mirca – Qui le loro condizioni sono sempre molto precarie, ma decisamente migliori rispetto ad altri campi. Possono anche uscire e stare fuori diverse ore. Ma tentano comunque il Game: Croazia, Slovenia, Trieste, Milano, Claviere”.
Quanto costa il Game
Il Game può costare dai 3000 ai 5000 euro, ci sono ragazzi che lo hanno tentato anche 10-15 volte. Mirca ci parla di I., un gambiano di 25 anni, riuscito ad arrivare in Grecia, dove è stato fermato dalla polizia e tenuto in carcere per tre mesi.
Dopo essere stato rilasciato, ha chiesto due volte asilo e due volte gli è stato negato. È andato quindi in Serbia e poi in Bosnia. Nel campo di Sarajevo dice che la situazione e il cibo sono buoni, ma non ha nessuno che lo sostenga economicamente per tentare il Game. “I. vuole arrivare in Italia, crearsi una famiglia e vivere libero” – spiega Mirca.
Le quattro volontarie torinesi sono le prime ad essere arrivate lì dall’Italia, hanno già esperienza di altri campi in Grecia e in Medio Oriente. A Sarajevo è diverso, la città si lecca ancora le ferite della guerra, i palazzi sventrati sono la testimonianza viva della devastazione fratricida che ha lacerato questa splendida porta dell’Europa.
Sarajevo diventa la metafora di un XX secolo segnato dai suoi sogni e dalle sue macerie. Le tre religioni hanno lasciato ovunque i propri segni. I profughi sono la manifestazione tangibile di certe politiche dei secoli scorsi che trovano sponda anche oggi nelle più diverse forme di conservazione e chiusura.
Che siano state delle donne ad essersi spinte fino in Bosnia a incontrare i fratelli migranti è però una bella immagine di un’Europa che vuole rialzarsi da quelle macerie e ricostruire se stessa su nuove basi, umane, solidali, accoglienti.
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