Con Biden sconfitta l’America
che odia l’Europa

Neppure l’immenso sollievo che ci regala la vittoria di Biden dovrebbe farci dimenticare quel che le elezioni americane confermano: l’America sono due Americhe opposte, e una è un’anti-Europa. Parte rilevantissima della società statunitense, corrispondente a buona parte dell’elettorato repubblicano, oggi esprime una visione del mondo, una concezione dello stato di diritto e un’idea dell’Occidente radicalmente diverse da quelle che fondano l’Unione europea. E non si tratta di un’America casuale, temporanea come una bizzarra malattia apparsa all’improvviso insieme a Trump e con lui destinata a sparire, avvertiva su strisciarossa Massimo Cavallini. E infatti la sprezzante diffidenza rovesciata platealmente sull’Europa; la pretesa di un primato sul resto del mondo da esercitare per imposizioni; la diffidenza verso le regole, il multilateralismo, i diritti umani; la rapacità affaristica; la benevolenza accordata a qualsiasi tiranno purché allineato a Washington e suo cliente, tutto questo era già nell’America dell’amministrazione Bush. Trump si libera delle narrative con le quali i neocons travestivano geni che oggi sono nel dna della nazione americana (peggio: in un segmento dell’establishment statunitense) e procede senza più infingimenti anche nell’ostilità alla Ue – talché il suo ambasciatore a Berlino proclamava ai quattro venti l’intenzione di aiutare tutti i sovranismi europei, insomma di sabotare l’Unione. Si dirà che anche nella politica estera di una Francia, per esempio, è possibile rintracciare, sia pure in misura diversa, sacri egoismi, hybris simil-imperiali, avidità neocoloniali e ammiccamenti a dittatori lordi di sangue; e quanto a cinismo di bassa lega l’Italia se la batte. Si potrà aggiungere che nell’altra America gli europei possono facilmente ritrovare, frammisti ad altro, passioni, idee e percezioni da cui potrebbero prendere esempio. E si potrà ricordare che l’idea di un’Europa pacificata e coesa non è soltanto il prodotto di menti europee coraggiose quali in Italia Spinelli e Silvio Trentin, ma anche un progetto che l’amministrazione Roosevelt cominciò a coltivare dalla fine del 1943.

Una visione propria, se necessario alternativa

Ma riconfermate tutte le ragioni per le quali ‘Occidente’ non è ancora una parola vuota e tenuto a distanza il petulante anti-americanismo, una domanda ormai è inevitabile: ha ancora senso una configurazione dell’Occidente che attribuisce de facto la leadership ad una nazione così scissa da non riuscire più a esprimere una visione condivisa della relazione con l’Europa? Ad un’America doppia, di cui una metà ogni tot anni, vinte le elezioni, rovescia il tavolo, sovverte le scelte dell’amministrazione precedente, si lancia in avventure pericolose pretende comando, docilità, adesione a politiche contrarie agli interessi della Ue? In altre parole è tempo che gli europei si attribuiscano una autonomia strategica. Che concretamente vuol dire: riuscire a proporre all’alleato americano una visione propria, all’occorrenza alternativa ai piani di Washington, e perseguirla. Ma questo presuppone che gli europei adottino il voto a maggioranza nei processi decisionali relativi alla difesa e alla sicurezza europee (e inevitabilmente, alla politica estera). Risolto questo passaggio cruciale, non mancherebbero strumenti tecnici per cominciare a riequilibrare il rapporto strategico Usa-Europa (a cominciare da quelli indispensabili alla creazione, in prospettiva, di una forza armata europea, quali il meccanismo CARD di coordinamento dei cicli di pianificazione annuale nella Difesa; la Cooperazione Strutturata Permanente, PESCO; il Fondo Europeo della Difesa). Considerando che Difesa, sicurezza ed Esteri sono i pilastri della sovranità, non è difficile immaginare che instaurare il voto a maggioranza è impresa ardua. E anche se riuscisse occorrerebbe poi inventare compromessi tra interessi nazionali divergenti, si veda il conflitto tra Italia e Francia in Libia. Ma proprio la Libia conferma che confidare ciecamente sul grande alleato americano è suicida: quando Haftar ha mandato a gambe all’aria la confusa politica italiana lanciandosi su Tripoli, Trump non solo non l’ha fermato, come implorava Giuseppi, ma l’ha incoraggiata, come gli chiedeva Mohammed bin Zayed, sultano di Abu Dhabi e grande cliente dell’industria bellica statunitense.

E tuttavia almeno in questo Trump non è stato totalmente dannoso: lui imperante, il tema dell’autonomia strategica è entrato nell’agenda di vari think-tank europei. Scarsa eco di questo discutere è arrivata sui media italiani, poco interessati ad argomenti non conformi ad un atlantismo impettito e sull’attenti, per una specie di residuale, pavloviana subalternità da Guerra fredda. Eppure prim’ancora di chiederci se ‘stiamo con Pechino o contro’, sarebbe stato onesto domandarsi se quell’amministrazione stava con o contro l’Europa.