Covid-19: più di settanta
i progetti di ricerca
per il vaccino

Certo, la principale speranza cui ci aggrappiamo è il vaccino. Se e quando lo avremo, potremo dichiarare sconfitto (o quasi) il coranavirus SARS-CoV-2. Ha suscitato molta attenzione la notizia che in Inghilterra a settembre inizieranno (probabilmente) i test per un candidato vaccino su 550 volontari sani messo a punto dall’università di Oxford con la compartecipazione di un centro di ricerca italiano, quello dell’Advent-IRBM di Pomezia, alle porte di Roma.

Da Oxford a Pomezia

vacciniIn pratica gli italiani stanno lavorando per trasferire a Oxford il vettore che dovrà trasportare la proteina Spyke, preparata in Inghilterra, grazie alla quale il coronavirus penetra nelle nostre cellule. L’obiettivo è quello di stimolare il nostro sistema immunitario. Quello di Pomezia è un vettore promettente, perché è stato già sperimentato in funzione anti-Ebola. Quindi onore al merito ai ricercatori (multinazionali) del centro italiano. Speriamo davvero che quella che hanno intrapreso sia la via giusta.
Ma contestualizziamo questa ricerca. Ci aiuta la rivista Nature Reviews Drug Discovery che lo scorso 9 aprile, con un articolo firmato da Tung Thanh Le e da altre sei ricercatori facenti capo al CEPI di Torshov, non lontano da  Oslo, in Norvegia, mostrava che fino al giorno prima i candidati vaccini contro il virus SARS-CoV-2 in tutto il mondo erano ben 115, di cui 78 confermati in una qualche fase attiva di sperimentazione, mentre dei restanti 37 non si hanno notizie affidabili. Dei 78 progetti di ricerca certificati come attivi, 73 sono in una fase di esplorazione o comunque preclinica.

La ricerca privata e pubblica

Tung Thanh Le e i suoi collaboratori ci offrono anche un dettagliato profili di questi 78 progetti di ricerca certificati. Tra loro 56 (pari al 72%) sono portati avanti da industrie private, mentre gli altri 22 (pari al 28%) sono sviluppati a opera di università, centri di ricerca pubblici o di organizzazioni no profit. Tra le aziende private, ce ne sono di grandissime (come la Janssen, la Sanofi, la Pfizer e la GlaxoSnithKine), ma per la gran parte si tratta di aziende piccole e/o con scarsa esperienza nel settore. Per cui, sostengono gli autori dell’articolo, sarebbe importante assicurare un coordinamento oltre che infrastrutture adeguate a questo insieme di industrie se si vuole che la ricerca e persino la messa a punto di un vaccino incontri la (enorme) domanda.
La maggior parte dei centri che hanno in atto un progetto di ricerca si trova in Nord America (36, pari al 46% del totale), in Canada ma soprattutto negli USA. In Asia ce ne sono invece 28, pari al 36 per cento del totale, di cui 14 in Cina e 14 in altri paesi (Australia inclusa). Altri 14 (18% del totale) sono invece in Europa.

L’Europa non regge il passo

A questo punto apriamo una parentesi. Come si vede nel nostro continente i progetti sono in numero minore che altrove. Il che è del tutto congruente con il fatto che l’Europa stenta a tenere il passo scientifico del Nord America e dell’Asia (della Cina, in particolare). Nei giorni scorsi l’italiano (che lavora negli USA) Mauro Ferrari si è dimesso dopo appena tre mesi dalla presidenza dell’European Research Council (ERC), perché lui lo voleva trasformare in un centro di ricerca top-down tutti finalizzato allo studio del nuovo coronavirus e degli strumenti per combatterlo. La proposta è stata bocciata all’unanimità dal Consiglio scientifico dell’ERC, che è un’agenzia indipendente che finanzia la ricerca bottom-up, dal basso verso l’alto, in tutti i campi possibili. Tuttavia l’intenzione di Mauro Ferrari non era affatto cattiva: l’Europa deve far di più nella ricerca su Covid-2019. Non trasformando la natura di ERC, ma magari varano un progetto bandiera e finanziandolo in maniera generosa: con almeno un miliardo di euro, come fa per altri suoi progetti bandiera.

Più progetti per raggiungere la meta

vacciniMa chiudiamo la parentesi e torniamo alla ricerca sui vaccini. Il progetto di Oxford portato avanti con l’ausilio di Pomezia è, dunque, uno tra molti. Questo è un bene: perché più sono le piste di ricerca, maggiore è la probabilità di raggiungere in tempi brevi l’obiettivo. Il filantropo americano Bill Gates, fondatore della Microsoft, sta contribuendo a mettere in pista sette diversi progetti di ricerca sull’onda di questa idea: più sono, prima e meglio si raggiunge lo scopo.
Il prima e il meglio, tuttavia non sono sempre concetti convergenti. Il primo vaccino, per esempio, potrebbe rivelarsi utile, ma meno efficace del secondo o del tredicesimo. L’importante, dunque, sarebbe continuare la ricerca anche dopo che un progetto ha tagliato per primo il traguardo.

Ancora senza vaccino per l’Aids

Tuttavia è bene affidare moltissime speranza al vaccino, ma non tutte. Per quanto circoli anche in ambiente scientifici un certo ottimismo sulla possibilità che da qui a un anno o un anno e mezzo ce ne sarà uno che potrà essere messo in commercio (ma non sarebbe meglio dire prodotto a beneficio dell’intera umanità?), non è certo in maniera deterministica che ne avremo uno, di vaccino. Per fare solo un esempio, sono oltre trent’anni che cerchiamo un vaccino contro l’AIDS e ancora non siamo riusciti a metterlo a punto.

Necessaria una grande collaborazione

È dunque necessario che prosegua la ricerca – in maniera intensa e plurale – di farmaci contro la malattia COVID-2019. In questo momento non ce ne sono di specifici. E non passa giorno che qualcuno in qualche parte del mondo non annunci di aver trovato il farmaco taumaturgo. La verità è, come spiega un altro articolo apparso il 14 aprile, sempre su Nature Reviews Drug Discovery che in questo momento sono in corso nel mondo almeno 180 trials clinici con pazienti già reclutati per candidati farmaci e altri 150 sono in corso, con pazienti ancora da reclutare. Ma ancora una volta molti di questi esperimenti sono piccoli e non progettati per trovare le migliori strategia di trattamento, come sostiene John-Arne Røttingen, direttore esecutivo del Consiglio delle Ricerche della Norvegia. Quello di cui c’è bisogno è di una maggiore collaborazione tra tutti coloro che lavorano nell’ambito di questi 330 progetti di ricerca. Perché nella battaglia contro una pandemia o l’umanità si presenta unita o ne esce quasi certamente perdente.
Combatterla con una sostanziale unità significa che, ove mai verrà scoperto, il farmaco anti SARS-CoV-2 dovrà essere a disposizione di tutta l’umanità e non di pochi privilegiati. È questa la più grande tra le tante sfide che il coronavirus ci sta ponendo.