Sindacato mondiale:
alla Camusso il 48%
ma non basta per vincere

Due donne, l’italiana Susanna Camusso, un lungo e appassionato servizio nella CGIL,  l’australiana Sharan Burrow, segretaria uscente, sono le protagoniste del Congresso mondiale dei sindacati (ITUC-International Trade Union Confederation) in corso a Copenaghen. Con la Camusso che poteva essere la nuova segretaria generale, ma che ha ottenuto un sostegno pari al 48 per cento delle adesioni. Un grosso e importante risultato dovuto ai voti di sindacati di Europa, America, Asia, dell’area del Pacifico, della regione araba, dell’Africa, che hanno condiviso il programma di Susanna, ma che non è bastato per prendere il posto della Burrow. Che rimarrà segretaria generale, carica  che ricopre già da 8 anni.

Sono due figure, l’italiana e l’australiana, che hanno iniziato la loro militanza organizzando l’educazione come opportunità per emanciparsi. Susanna Camusso con le 150 ore per i metalmeccanici, Burrow come insegnante nel non facile Nuovo Galles del Sud degli anni Settanta. Oggi entrambe sui sessanta, hanno vissuto le stagioni dure e decisive delle lotte di operai e lavoratori intellettuali in continenti diversi, è vero, ma marcati entrambi, fino a poco più di dieci anni fa, dalla certezza che le ragioni del sindacato avrebbero garantito un futuro di prosperità, e comunque di progresso, al mercato del lavoro.

Purtroppo non è questa la realtà descritta da numeri e fatti a questo congresso mondiale che fissa gli obiettivi dei rappresentanti dei lavoratori per i prossimi quattro anni. Il primo è nel titolo dell’assemblea, con 1200 sindacalisti di 132 Paesi in rappresentanza di 207 milioni di lavoratori e 331 centri sindacali nazionali. Il tema del 2018 è infatti “Costruire il potere dei lavoratori: cambiare le regole”. Questo è il fine comune a donne e uomini sindacalisti in Paesi tra loro molto diversi, l’obiettivo dei prossimi quattro anni di proposte e battaglie.

Vi sono le giovani unioni dei contadini del Centro America, dove opporsi a una diga può costare la vita, come è accaduto in Honduras a Berta Caceres. E partecipano gli antichi sindacati europei, tormentati dalle nuove sfide che lancia il lavoro o la sua assenza, ma pur sempre forti di conquiste enormi tra fine Ottocento e fine Novecento: un limite di ore alla giornata lavorativa, la previdenza, un ambiente di lavoro non nocivo. Siedono fianco a fianco delegati di Corea e in Indonesia, dove la settimana lavorativa va da 60 a 72 ore, e delegati dei Paesi Bassi, dove la settimana lavorativa è quasi sempre di 4 giorni (29 ore settimanali) o rappresentanti della Norvegia dove da tempo il congedo parentale per madri o padri dura 43 settimane. La visione comune include una giustizia ambientale, sociale e politica che vada oltre la mera crescita economica misurata col prodotto interno lordo.

L’eliminazione del lavoro minorile è ancora un obiettivo lontano: “Si stima che 152 milioni di bambini e bambine – afferma uno dei documenti – siano oggi obbligati a lavorare, e nelle forme peggiori”. Vengono proposti nuovi sistemi di sanzioni per le compagnie che, anche indirettamente, usano i bambini per i loro prodotti. Questo, anche con il fondo della Federazione mondiale, andrà di pari passo a incentivi alle famiglie povere e a una educazione di qualità.  Sono gli obiettivi per il 2025 condivisi dal sindacato mondiale assieme alle Nazioni Unite. Entro sette anni impiegare un bambino dovrà essere del tutto svantaggioso per chi lo vuole fare.

Oggi la schiavitù esiste, ricordano i sindacati, e su larghissima scala: solo negli ultimi cinque anni 89 milioni di persone sono state intrappolate in questa condizione. A rischio soprattutto chi cerca di migrare. I rappresentanti delle organizzazioni dei lavori dei Paesi del Golfo e altre nazioni del Vicino Oriente sottolineano come il sistema della Kafala porti a uno stato di soggezione che di fatto è schiavitù. In Bahrain, Iraq, Giordania, Libano, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti i lavoratori scarsamente qualificati, in genere edili o domestici, devono avere uno sponsor, quasi sempre il datore di lavoro, che è responsabile per il loro visto e il loro status. Spesso i passaporti vengono ritirati a tempo indefinito e i lavoratori sfruttati. In Qatar le associazioni dei lavoratori sono riuscite a ottenere molta visibilità raccontando ai media internazionali le condizioni di grave sfruttamento di due milioni di immigrati addetti ai servizi e alla costruzione delle enormi infrastrutture della Coppa del mondo di calcio del 2022.

Di lavoro nel mondo si muore in ogni istante, per ferite fatali in seguito ad incidenti, o per gravi malattie dovute a un ambiente inquinato o degradato. Ogni anno perdono la vita 2.78 milioni di persone. Di queste alcune sono vittime di violenze, in particolare le donne. Anche nei Paesi industrializzati il 20 per cento dei casi di asma è collegato al lavoro; tornano malattie come la silicosi, che colpisce i polmoni e purtroppo l’abolizione dell’amianto continua a restare sulla carta. La pressione del lavoro in alcune grandi compagnie, anche nel ricco Occidente, provoca cardiopatie, suicidi, ictus. Una crescente ansia coinvolge i dipendenti del lavoro temporaneo o non preceduto da una vera formazione, mentre i problemi linguistici hanno peggiorato il quadro generale dei rischi immediati per l’incolumità o a lungo termine per la salute.

Non è aumentato, secondo i dati del congresso neppure lo spazio democratico per migliorare il lavoro, distribuirlo al meglio e far rispettare i diritti. Oggi sono 54 i Paesi che negano o limitano la libertà di parola (50 nel 2017);  nel 2018 sono diventati 65 i Paesi in cui i lavoratori subiscono varie forme di violenza (59 nel 2017) e 59 i Paesi in cui i lavoratori sono arrestati o detenuti in caso di protesta (44 nel 2017).

Ma tutto questo, nota l’osservatorio finanziario di Copenaghen, va inserito nello scenario di oggi: la globalizzazione favorisce in modo sproporzionato i titolari di capitale, le stesse aziende che hanno provocato la grande crisi sono tornate in sella, l’economia è ancora ostaggio di un mercato poco regolato. Meno del 60% della forza lavoro nel mondo (anche nei Paesi dove l’economia vola) ha un regolare contratto. “La democrazia – è l’amara conclusione di Copenaghen – è un danno collaterale, corrotta dalle concentrazioni di potere in troppi, troppi Paesi. I Panama Papers, i Bahamas leaks e i Paradise Paper (recenti scandali di massiccia evasione fiscale e altri reati finanziari, n.d.r.) hanno rivelato il problema”.