Ágnes Heller: la lotta per la libertà
nel segno dell’umanesimo marxista
Il regime che a Budapest ha rimosso le statue di György Lukacs non si affannerà certo a ricordare, come invece dovrebbe, Ágnes Heller. Il sovranismo ha di queste stranezze: non si fa scrupolo di cancellare la memoria dei figli della patria che hanno contribuito a renderla rispettata nel mondo. Eppure quella ragazza ebrea, scampata ad Auschwitz, fulminata poco più che diciottenne, un giorno di primavera del ’47, da una lezione di Lukacs sull’estetica del realismo e poi animatrice di quella “scuola di Budapest” che a metà tra la filosofia e la politica dette non poco filo da torcere ai regimi comunisti dell’Europa orientale, alla sua propria patria ha dato moltissimo. Quanto, e forse anche più del suo maestro, al quale restò legatissima finché visse, Ágnes fu un punto di riferimento per tutti quelli che pensavano che socialismo e democrazia non dovessero contrapporsi come accadeva nell’Ungheria di allora e in tutti i paesi dell’Impero Sovietico, addormentati nell’autoillusione del “socialismo reale”.
“L’uomo del Rinascimento”
Lei, come Lukacs e pochi altri filosofi dissidenti nelle università dei paesi dell’est, proponeva una lettura del marxismo in cui si salvava la continuità con il pensiero di Hegel e che rifiutava, dunque, le ingenuità deterministiche del materialismo come teoria della realtà e le tragiche implicazioni del materialismo storico. Ma Heller era ben più di una studiosa della teoria marxista. Dopo la rivolta del ’56 pensò che fosse arrivato il momento di schierarsi contro la disciplina del “campo socialista” e nelle sue lezioni all’università assunse posizioni sempre più critiche verso l’ortodossia restaurata del regime imposto da Mosca. La disobbedienza le costò la cattedra e fu “degradata” ad insegnante di liceo, mentre i suoi libri vennero messi al bando.
Nel 1963, come membro dell’Accademia delle Scienze, da cui il regime non ha avuto il coraggio di rimuoverla, partecipa a una missione di studio in Italia. È il suo primo viaggio in occidente e il soggiorno a Firenze ispirerà “L’uomo del Rinascimento”, un testo storico-filosofico in cui viene definito compiutamente l’ideale di libertà che, nel pensiero di Heller e della scuola di Budapest, dovrebbe essere il senso più profondo del pensiero di Marx. Poi l’evoluzione delle sue posizioni filosofiche la porta sempre più in rotta di collisione con il regime.
L’esilio
Nell’agosto del 1968 critica apertamente l’intervento del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia e questo le costa l’espulsione dall’Accademia e una esplicita proibizione a pubblicare. Nel 1977, dopo un’ulteriore stretta repressiva che la espone al pericolo di essere imprigionata, Ágnes Heller si sente costretta a lasciare l’Ungheria insieme con il marito e una coppia di amici esponenti anch’essi della scuola di Budapest, e sceglie l’esilio nel paese più lontano possibile: l’Australia. Per nove anni insegnerà sociologia all’Università di Melbourne, mentre i suoi scritti otterranno un grande successo in Europa e negli Stati Uniti.

Il ’68 e il femminismo
Insieme con il suo maestro Lukacs, con Rosa Luxembourg, Herbert Marcuse, i polacchi Kuron e Modzelewski, Ágnes Heller diventa un’icona del marxismo libertario che tiene vive le spinte ideali del ’68. Nello stesso tempo, i suoi scritti sulla condizione della donna nelle società capitalistiche – “Il futuro del rapporto tra i sessi” (1974), “Teoria dei sentimenti”, “Le forme dell’eguaglianza” (1978) – saranno testi fondamentali per i movimenti femministi. Nel 1986 prende la cattedra che era stata di Hanna Arendt alla New School for Social Research di New York ma tre anni più tardi, dopo la caduta del Muro di Berlino e la democratizzazione in Ungheria torna in patria.
Il ritorno a casa
Negli ultimi anni della sua vita, la piccola ebrea sopravvissuta ad Auschwitz deve vivere l’amarezza dei rigurgiti di antisemitismo e l’involuzione autoritaria di un nuovo regime, quello di Viktor Orbán, al quale dedica un libro che è un durissimo atto d’accusa: “Orbàn, Kaczyński, Putin e i sovranisti italiani e francesi – dirà in una delle sue ultime dichiarazioni pubbliche – sono diversi dai tiranni di ieri, ma possono diventare più pericolosi”.
L’espressione di una preoccupazione che in fondo è una manifestazione di amore per l’Europa e per il proprio paese. Il paese nel quale Ágnes è tornata a vivere gli ultimi suoi anni fino alla morte avvenuta nelle acque di uno dei luoghi più cari agli ungheresi: il lago Balaton.
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