Addio a Guido Ceronetti, pensatore
e artista controtempo
Se dici Novecento, vedi personaggi così. Annodati strettissimi a quel secolo, alle sue categorie, ai suoi azzardi intellettuali. Guido Ceronetti, scomparso a novantuno anni il 13 settembre, se ne è stato rintanato per decenni in uno spazio – una nicchia – che, potremmo dire così, coincide con lui. La nicchia-Ceronetti, la tana, la bottega del pensatore-aforista, del marionettista, del traduttore, del letterato. Non fuori dal tempo – c’è chi potrebbe pensarlo – ma controtempo, perché sfasato, asincrono, non convenzionale nelle intuizioni, nel piccolo morso della provocazione, nel sottile risentimento che incupiva le sue notazioni ironiche sul mondo dei cosiddetti viventi. Ha scritto, disegnato, allestito, diretto – non c’è un gesto, anche molto artigianale, che nel campo della creatività dell’umanista non abbia compiuto. E tutto in una indomita solitudine, o ancora meglio disappartenenza: lettere tante, a chiunque; tessera di clan, di gruppo, di ghenga, nessuna. Allergico agli intruppamenti, barbagianni sul suo ramo, Ceronetti osservava l’inconsolabile mondo e gli lanciava il suo squillante fischio notturno. «Salvate il mondo. Mangiate carne umana». «Nessuna saggezza di vita resiste a tre giorni di stitichezza». Stizzoso, fosforico, l’umorista nero Ceronetti non risparmia sé stesso e nessuno: «Processiamo la Vita e non permettiamo – da accusatori implacabili – che venga assolta». «L’Italia è una nazione pietrificata dalla universale passività». «La Morte riceve 24 ore su 24, ma solo su appuntamento. (L’ora ci viene assegnata nascendo)».
L’aspetto più curioso della lunga vita di Ceronetti è che la sua originalissima opera sembra non adattarsi a nessun contenitore. Non ha scritto romanzi, intanto; è stato in scena – anche fisicamente, concretamente – come un prestigiatore. Tirava fuori dal cappello di biblista un’illuminante glossa; dal cappello di iperlettore, viatici ad autori come Cioran, che fece scoprire in Italia all’inizio degli anni Ottanta. Dal cappello di traduttore bellissime versioni dei Salmi, di Orazio, di Marziale, di Kavafis. Dal suo cappello di drammaturgo-regista, «deliri disarmati» per la scena. Dal cappello del pensatore pessimista, strali contro il progresso («eccelleva nella deprecazione dei tempi», ha scritto Valerio Magrelli). Dal cappello del poligrafo, versi, divagazioni, note di viaggio, appunti fulminanti, spesso prestati ai giornali. Radicale, vegetariano, auto-esiliato nel presente, lascia aperta una incredibile e fosforescente cassetta di attrezzi intellettuali. «Non posso più andare lontano», aveva scritto qualche anno fa. «Posso ancora illuminare la strada».
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