L’ultimo leader del cattolicesimo sociale, se ne va Franco Marini
“Non volevano le grandi intese. Dovranno accettare le larghissime intese”. Sembra quasi profetico, oggi che si rende omaggio alla sua figura, lo sfogo a cui Franco Marini si lasciò andare quando, a metà aprile del 2013, come era già accaduto con il suo nome, anche quello di Romano Prodi fu impallinato nel segreto delle urne del Parlamento riunito in seduta comune per la successione di Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica.
Le vicende delle istituzioni e della politica possono seguire anche parabole a distanza di tempo. Del resto, è rimasto il tempo della transizione incompiuta. E quella di Marini era la candidatura dell’”uomo del secolo scorso”, come allora fu definita, sebbene con intento insolente, da un Matteo Renzi inconsapevole dei travagli del secolo breve. La scelta era stata inizialmente concordata da Luigi Bersani, allora segretario del Pd, con l’avversario Silvio Berlusconi (avversato dallo stesso Marini, e come tale lealmente riconosciuto) per cercare di sbloccare la legislatura dalla paralisi imposta dall’irruzione del M5s nello scenario bipolare. All’ultimo esponente del cattolicesimo sociale, al democristiano che aveva vissuto tutte le lacerazioni della Prima Repubblica, sarebbe toccato il gravoso compito di evitare che anche la Seconda precipitasse nel baratro dell’incombente anti politica.
Il rottamatore e i franchi tiratori
Ma proprio la caratterizzazione religiosa d’origine fu messa sotto tiro dal neo rottamatore già nella prima fronda all’assemblea dei grandi elettori del Pd. Marini, che pure aveva impedito che il Ppi seguisse Rocco Buttiglione nel calderone della destra ed era stato tra i fondatori della Margherita e quindi del Partito democratico, ne fu addolorato.
E forse fu anche quella mortificazione a indurlo a rinunciare, dopo che più di 150 franchi tiratori ne fermarono la candidatura a 521 voti rispetto ai 672 necessari (ma pur sempre utili per una elezione al quarto scrutinio), a contrastare la scelta di Bersani di cambiare schema di gioco, da quello istituzionale a quello più politico (avrebbe voluto essere un segnale ai 5 stelle) della candidatura di Romano Prodi. Ma solo quando anche il nome del “cattolico adulto” fu abbattuto dai 101 franchi tiratori del centrosinistra, Marini giudicò “volgare e ingiusto” l’intero andazzo.
Fosse stato per Marini, avrebbe combattuto i sabotatori dell’intesa istituzionale. Il combattimento, del resto, era nella indole del figlio di operai indotto a studiare per emancipare la condizione sociale delle origini, prima nel sindacato, poi in politica e nelle istituzioni che, nella sua concezione, proprio perché “di tutti”, dovrebbero consentire la composizione dei conflitti democratici. Il “lupo marsicano”, com’era definito per il suo carattere (e questa definizione lo lusingava), aveva lottato alla stregua di un alfiere della democrazia dell’alternanza, nel 2006, all’avvio di una legislatura tenuta in bilico a palazzo Madama. Il centrosinistra candidò Marini alla presidenza del Senato e il centrodestra gli oppose Giulio Andreotti, contando di strappare consensi nel comune alveo dc. In quel corpo a corpo tra visioni dell’impegno dei cattolici in politica diventate divaricanti dopo il comune percorso negli anni della guerra fredda, Marini la spuntò d’un soffio, e la sua elezione costituì il viatico per l’avvio del governo Prodi e la elezione di Giorgio Napolitano al Quirinale.
Mandato esplorativo
E, quando nel 2008 l’esecutivo cadde sulla scia del contorto caso giudiziario che aveva investito il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, e sua moglie, toccò proprio alla seconda carica dello Stato l’incarico di esplorare la possibilità di formare un governo che rivedesse la legge elettorale, quel “porcellum” come era stato definito dal suo stesso ideatore (il leghista Calderoli) già in odore di incostituzionalità, prima di sciogliere le Camere e ritrovarsi con un Parlamento ancora in balia della transizione politico-istituzionale. A quell’impresa Marini si dedicò con lo spirito dell’ufficiale alpino, ma si ritrovò con una compagnia troppo irregolare per una scalata tanto più ardua per il montare dell’illusione revanscista nel centrodestra. Anche quell’illusione si è rivelata fallace, proprio come Marini aveva avvertito nel rimettere, dopo 4 giorni, il mandato “con molto rammarico”.
Non è mai stato, Marini, tipo da nascondere, per opportunismo, sentimenti, stati d’animo e convincimenti. Persino – perché non dirlo – dell’anticomunismo originario. Mai viscerale, però. A suo modo, repubblicano. E forse anche riscattato quando, nell’ottobre del 1998, alla caduta del primo governo Prodi, pur potendo da segretario del Ppi contrastare Francesco Cossiga e porre il veto all’incarico di governo a Massimo D’Alema, scelse di rispettare quell’altra storia.
Così era stato nel sindacato. Già nella Cisl, dove a metà degli anni Sessanta era stato spinto da Giulio Pastore a rappresentare l’originaria anima democristiana. “Eravamo – ebbe poi a riconoscere – l’ala più a sinistra della Dc, la più vicina al mondo operaio, ma proprio per questo avevamo un rapporto molto competitivo con i comunisti”. Tanto da osteggiare le prime tappe verso l’unità organica con le altre due confederazioni sindacali favorite da Pierre Carniti, con cui condivideva la passione irruente per il sigaro, e Giorgio Benvenuto. E però, quando con l’accordo separato con Bettino Craxi sulla scala mobile Carniti mise in gioco tutto, compresa l’autonomia della soggettività politica del sindacato, condivise con Luciano Lama, oltre alla riflessiva pipa, anche lo sforzo per recuperare almeno l’unità d’azione del mondo del lavoro.
Anche su questo, c’è un lascito di Marini da raccogliere: “Forse sbagliavo”, ha poi ammesso onestamente a proposito dei “condizionamenti” degli anni Settanta: “Quei condizionamenti non ci sono più, la situazione dei lavoratori è diventata estremamente più difficile e fare il sindacalista adesso è più complicato di allora perché nelle aziende ritrovi dipendenti con contratto a tempo indeterminato, a tempo determinato, a partita Iva, ti muovi insomma in una vera e propria giungla di tipologie contrattuali. Lo dico con grande sincerità, oggi l’unità io la farei”.
Ha fatto altro, Marini, negli 87 anni di vita, fino al buon ritiro minacciato dal virus di questo secolo. Ma la lezione, a ben guardare, sempre quella è.
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