Addio a Burgnich, segnò la riscossa
nella mitica Italia-Germania 4-3

Era l’uomo più improbabile per segnare quel gol. L’Italia stava sotto, 2-1 per la Germania Ovest (c’era ancora il Muro). Semifinale dei Mondiali del 1970, in Messico. 1-0 per l’Italia con gol di Boninsegna, pareggio assurdo di Schnellinger all’ultimo minuto, supplementari. E all’inizio dei supplementari Gerd Muller porta in vantaggio i tedeschi con l’aiuto del nostro difensore Poletti, appena entrato al posto di Rosato. Sembra la fine. Si gioca a duemila metri di altitudine, sono tutti senza fiato, come si fa a rimontare? Eppure.

Eppure all’ottavo minuto del primo supplementare l’Italia ottiene un calcio di punizione, ben lontano dall’area. Sulla palla va Rivera. I tedeschi mettono la barriera, pensano che Rivera possa tirare in porta, invece la scodella in mezzo all’area, cercando Riva o Boninsegna, uno degli attaccanti. La palla sbatte su un tedesco che indossa la maglia numero 10 e si chiama Siegfried Held. “Held” significa “eroe”, e Siegfried, vabbè, tutti sappiamo chi è Sigfrido. E l’eroico Sigfrido che fa? La respinge malamente, se la fa carambolare su un fianco, la palla resta lì in mezzo all’area e in mezzo all’area c’è Tarcisio Burgnich, un uomo che in tutta la sua vita ha segnato pochissimi gol e ne ha evitati a centinaia. Il Terzino, con la T maiuscola. Ma in quell’istante il Terzino si trasforma in Centravanti. Tira d’istinto, di sinistro, il piede cattivo. E segna.

Il 2 a 2 della riscossa

Tutti ricordano, di quell’indimenticabile partita, il gol tagliagambe di Schnellinger (senza il quale, per altro, l’Italia avrebbe vinto 1-0 e noi non avremmo mai vissuto i supplementari più folli nella storia del mondo) e ovviamente il gol di Rivera, quello decisivo. Ma quel 2-2 di Burgnich fu altrettanto fondamentale, perché riaprì una partita che l’Italia si stava avviando a perdere per un improvviso attacco di depressione. Sarebbe sempre utile ricordare che i quattro gol italiani furono tutti belli, e “veri”, mentre i tre gol tedeschi furono frutto di colossali errori e di irripetibili assurdità. Schnellinger, ad esempio, che ci faceva lì, in area? Mai capito. Il 2-1 fu una ridicola carambola con Albertosi che annaspava verso il pallone come un gatto ferito. E il 3-3 fu un colpo di testa di Muller, con Rivera sulla linea che si scansò invece di respingere, tanto che Albertosi lo voleva ammazzare e la leggenda vuole che Rivera andò in attacco per sfuggire alla sua rabbia, e si ritrovò sul disco del rigore pronto a impattare il meraviglioso cross rasoterra di Boninsegna.

Burgnich e Muller

Che partita! E Burgnich era lì, pronto a segnare. Le statistiche ci dicono che Tarcisio ha segnato 11 gol in una carriera lunga quasi vent’anni: 7 con la maglia dell’Inter, uno con quella del Napoli, un altro con quella del Palermo (dove giocò solo un anno) e due in nazionale: il primo in un’amichevole con l’Austria nel 1966, il secondo all’Azteca di Città del Messico, quella notte.

Purtroppo, qualche giorno dopo, l’Italia fu brutalmente sconfitta dal Brasile nella finale e Burgnich entrò in un’altra foto iconica, quella in cui Pelè lo sovrasta di venti centimetri buoni nel colpo di testa che vale il gol dell’1-0. È una foto crudele, che come tutte le foto di calcio inganna nella sua fissità: Pelè salta dritto, in favore di cross, mentre Burgnich salta retrocedendo e non può ovviamente arrivare alla stessa altezza. Questione di posizionamento, più che di elevazione.

Tarcisio Burgnich è stato uno dei più forti difensori di tutti i tempi. Era il figlio di un’epoca in cui, in Italia, dominava la marcatura a uomo. Ed era un marcatore implacabile. Ma aveva anche senso della posizione e dell’anticipo, come testimonia il fatto che abbia terminato la carriera giocando, bene, da libero. A differenza di illustri compagni di squadra, come Facchetti e Mazzola, la sua carriera nei club coincide con l’epopea della grande Inter di Herrera ma non si limita ai colori nerazzurri: cresce nell’Udinese (lui, friulano di Ruda), viene preso dalla Juventus che lo manda a farsi le ossa nel Palermo ma poi non crede in lui. Nel 1962 arriva all’Inter, vince subito lo scudetto e poi tutto quello che c’è da vincere. Nel 1974 va al Napoli, dove chiude con tre stagioni sempre da titolare. 495 presenze tutte in serie A, 66 partite in nazionale: numeri da “highlander”. Si ritira a 38 anni per intraprendere una lunga carriera da allenatore: squadre sempre di medio livello (Catanzaro, Cremonese, Como, Livorno, Genoa, Foggia) in piazze dove, comunque, si guadagna sempre stima e affetto.

Per gli interisti, Burgnich resterà per sempre il tassello centrale del primo settenario di un’irripetibile poesia: Sarti Burgnich Facchetti, Bedin Guarneri Picchi, Jair Mazzola Peirò Suarez Corso… può cambiare il numero 9, potete metterci Milani o Domenghini o Cappellini, e al numero 4 la prima Coppa dei Campioni vinta vede in campo Tagnin, che fa rima con Bedin. Tutti gli altri sono i fenomeni di una squadra fantastica, in un’epoca in cui era facile e bello imparare le formazioni a memoria. Armando Picchi se n’è andato per primo, stroncato giovanissimo da un male feroce. Facchetti è pure morto giovane, a 64 anni. Corso, Peirò e Sarti ci hanno lasciato in anni recenti. Altri, come Guarneri Mazzola e Suarez, tengono alta la bandiera.

Chi ha più di sessant’anni, come chi scrive, ricorda che quando in campo a San Siro c’erano Burgnich e Facchetti ci si sentiva sicuri, protetti: come fossero due fratelli maggiori, uno alto e bello, l’altro con una ruvida faccia da film western, che non tradivano mai. Ha reso loro omaggio persino Nanni Moretti (un romanista pacato), in “Ecce Bombo”, (qui il video) il personaggio di Michele dà ripetizioni a quegli sciagurati che si stanno preparando per la maturità. “Quali sono i Presidenti della Repubblica dalla sua fondazione ai giorni nostri?”, chiede Nanni/Michele; e uno degli alunni risponde “De Nicola…”, e non sa più andare avanti; poi, l’illuminazione: “De Nicola… Burgnich Facchetti, Bedin Guarneri Picchi, Jair Mazzola Cappellini Suarez Corso”. Mette Renato Cappellini centravanti, Nanni Moretti. Scelta molto poetica. Undici presidenti, uno meglio dell’altro.