Tasse universitarie
solo un primo passo

​Sta facendo molto discutere la proposta di Pietro Grasso, presidente del Senato e leader di Liberi e Uguali, di abolire del tutto le tasse universitarie. Con l’argomento implicito  che le minori entrate degli atenei saranno coperte dalla fiscalità generale.

Siamo in campagna elettorale e può succedere che le polemiche assumano un carattere pretestuoso. E tuttavia in questo caso gli argomenti a favore della proposta sono molti, mentre è davvero difficile trovarne qualcuno contrario in termini culturali, sociali e persino logici.

Come è stato autorevolmente sostenuto, per esempio da Susanna Camusso, non vale la tesi secondo la quale abolendo le tasse universitarie si fa un favore solo ai rampolli delle famiglie più ricche, perché i ragazzi delle famiglie povere sono già esentati. Al contrario, poiché le tasse che vanno allo stato sono progressive mentre quelle universitarie no, il nuovo sistema risulterebbe certamente più equo.

​Ma non è questo il punto. L’abolizione delle tasse universitarie è (deve essere, cari compagni di Liberi e Uguali) il primo tassello, necessario, di un quadro più ampio e organico. Che parte dal diritto allo studio, che ormai si estende anche alla formazione di terzo livello, quella universitaria appunto, per rilanciare (davvero, finalmente) l’economia del paese modificando la specializzazione produttiva del sistema Italia.

​Che il diritto allo studio includa, ormai, anche la formazione universitaria sono in molti a dirlo, inclusa l’Unione Europea. Che, infatti, si è posta come obiettivo quello di raggiungere una quota minima di laureati del 40% tra i giovani nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni. La media europea sfiora già questo livello. Alcuni paesi la superano abbondantemente. In Giappone, in Canada, in Russia siamo ben oltre il 50%. In Corea del Sud, vero campione mondiale, siamo addirittura al 70%.

Ebbene, l’Italia con il suo modesto 24% è ultima sia in Europa sia tra i 40 paesi OCSE. Da ultimo ci hanno superato anche la Romania, la Bulgaria, la Turchia. ​Questo semplice dato ci dice che siamo fuori dalla società e dall’economia della conoscenza. Siamo un paese cognitivamente arretrato e, dunque, economicamente in declino. Non si può essere, infatti, competitivi nell’economia della conoscenza con un numero così basso di giovani culturalmente attreozzati.
​Se vogliamo recuperare il “gap cognitivo” abbiamo bisogno di più laureati. Abbiamo bisogno di passare in pochi anni dal 24 ad almeno il 40% con un titolo di studio di terzo livello tra i giovani di età compresa tra i 25 e i 34 anni.
È, questa del 40%, la quota minima per tutti. Tanto più per un paese, come l’Italia, che ha una specializzazione produttiva nel campo delle industrie a media e bassa tecnologia e dei servizi a medio e basso contenuto di conoscenza e che ha necessità di modificarla rapidamente questa sua specializzazione, se vuole interrompere il percorso di declino relativo (e a tratti anche assoluto) che dura da trent’anni.

​Per cambiare specializzazione produttiva, come intuì Vannevar Bush, consigliere di Franklin D. Roosevelt, occorre che lo stato investa di più in ricerca scientifica. Ma occorre anche una quantità di giovani formati al più alto livello che possano qualificarla quella spesa. Occorre, dunque, investire nelle università, ampliando l’universo di chi vi ha accesso.
​In sintesi: aumentare il numero di laureati è un interesse culturale, sociale ed economico del paese.

​Ebbene, uno dei motivi che fanno dell’Italia un paese con un grosso – e per certi versi clamoroso – gap cognitivo è il fatto che la nostra università sta ritornando a essere un’università di classe. Nel senso che l’accesso agli studi superiori di giovani appartenenti ai ceti che una volta si sarebbero detti meno abbienti e persino di larghi strati di ceto medio è fortemente impedito. C’è, appunto, una selezione alla base che è determinata dal reddito. Una selezione di classe, appunto.

​Una delle prove è la fuga dalle università realizzata negli ultimi anni dai giovani del Mezzogiorno d’Italia: ovvero dell’area del paese a minor reddito medio pro-capite. Molte famiglie non possono più sperare di avere il figlio dottore – come recitava una nota canzone – per motivi squisitamente economici. Tra questi, le tasse universitarie troppo alte e l’accentuata carenza sia di alloggi per gli studenti fuori sede sia di borse di studio. ​Ma, proprio come sosteneva Vannevar Bush, i ragazzi intelligenti sono distribuiti tra tutte le classi sociali. Se la selezione primaria dell’università si fonda sul reddito delle famiglie, ipso facto l’Italia rinuncia a una quantità insostenibile di cervelli. Insostenibile, dunque, non solo in termini di equità sociale, ma anche in termini strettamente economici.

​Ecco perché abolire le tasse universitarie è (deve essere) solo il primo passo. Cui devono seguire più alloggi, più borse di studio, più risorse complessive per l’università (oggi l’Italia investe nell’alta formazione la metà in termini relativi rispetto alla Germania o alla Francia) non solo per assicurare uno dei diritti fondamentali dell’uomo (il diritto all’istruzione) ma anche per realizzare un progetto politico organico che rompa la spirale di declino e porti finalmente l’Italia nella società e nell’economia della conoscenza.