In Calabria, per il lavoro
e (come nel 1972)
a difendere la democrazia
Per le generazioni più mature Reggio Calabria è evocativa perché rappresenta plasticamente il punto di svolta, la controffensiva democratica all’assalto neofascista mosso all’intero paese. Nella vicenda di Reggio del 1970 si trovano tutti gli ingredienti dell’Italia del terrore della fine degli anni sessanta: il “populismo dei fascisti”, la violenza e lo stragismo, l’assassinio come metodo di lotta politica.
È la metafora di un Mezzogiorno che esplode di fronte alla crisi ed all’emigrazione. È la metafora di una democrazia non consolidata che reagisce alla protesta studentesca del ’68 e dell’autunno caldo del ’69. È lì che si ingaggia lo scontro aperto, si direbbe oggi “senza se e senza ma”, tra la destra fascista bombarola ed il movimento sindacale. Anzi, con la classe operaia del tempo. Reggio è la miccia che può distruggere la democrazia. E il sindacato, quello dei metalmeccanici innanzitutto, ne costituisce l’argine. Per questo la breccia va aperta a Reggio Calabria e non a Milano piuttosto che a Genova. Bisogna sconfiggere i “boia chi molla” e vanno sconfitti lì dove sono più forti e radicati. Reggio capitale della Calabria, piuttosto che Catanzaro, è solo l’innesco se è vero che quel 22 ottobre del 1972, in quella città prostrata da una violenza crescente, si è concentrato il peggio dello squadrismo nero ed il meglio della classe operaia italiana. Non è mai successo nella storia repubblicana un confronto così diretto e così pericoloso. Reggio quel giorno sfiora la tragedia, è vittima di attentati, accoglie con bombe e sassi i manifestanti. Lama, Trentin, tutto il gruppo dirigente della Cgil, della Cisl e della Uil sono lì. In gioco è la democrazia. Il sindacato, e soprattutto la sua gente, è chiamato a svolgere la più alta missione per un soggetto politico generale: impedire che una destra stragista sconvolga la democrazia repubblicana.Possiamo dire che a Reggio l’Italia si gioca ancora la partita della vita dopo Piazza Fontana.

Oggi siamo ad un nuovo snodo della democrazia italiana. Siamo precipitati dentro una nuova crisi di legittimazione democratica mentre subiamo i colpi di un modello economico, italiano ed europeo, segnato da bassa crescita. Negli anni tra i sessanta e i settanta si allargava quella grande “pancia” del paese rappresentata dal ceto medio, oggi la cifra di questa fase è il suo ridimensionamento. L’impoverimento del paese è il grande tema della democrazia italiana e può diventare il suo piano inclinato. Il Mezzogiorno è in qualche modo metafora della crisi del ceto medio.
Un plus politico
Le manifestazioni sindacali imperniate sul Mezzogiorno hanno sempre avuto un “plus” politico, e quella del 22 giugno non farà eccezione. Del resto parliamo di un’area geografica tanto in difficoltà da avere smarrito coscienza di sé (oggi è la questione settentrionale ad esprimere forte soggettività politica). Infatti nessuna delle grandi scelte di politica economica riguarda il Mezzogiorno; il Ministero per il Mezzogiorno non ha alcuna “leva” di gestione; il supermarket dei contratti pirata ha sopito le vecchie spinte alle gabbie salariali; la soggettività politica delle Regioni si è infiacchita sotto i colpi delle politiche di bilancio; non si contano più i Comuni in pre-dissesto.
L’utilizzo dei fondi europei, autentico propulsore di crescita nei primi anni 2000, sembra in forte crisi mentre si allunga la sequenza di acronimi pronipoti dei patti territoriali segnati dalla certezza del fallimento. Il Mezzogiorno non è solo questo, per fortuna. Le grandi città restano un forte punto di attrazione mentre continuiamo ad assistere allo spopolamento delle aree interne; persistono eccellenze industriali e universitarie; la sua vicinanza al continente africano può diventare strategica per la collocazione del nostro paese nel commercio e nell’industria globali.
Tagli agli investimenti
Il presente ci dice che il taglio agli investimenti pubblici è un taglio netto al mezzogiorno; che il decreto sblocca appalti si arenerà nell’inefficienza della Pubblica Amministrazione e nel rischio per le infiltrazioni mafiose; che lo stato sostanziale di fallimento dei grandi gruppi dell’edilizia manterrà bloccato un portafoglio di commesse soprattutto nel Mezzogiorno. La Sardegna secondo il governo non dovrà rifornirsi con il gas e soprattutto non dovrà generare energia nella fase della sua transizione rischiando di causare una crisi irreversibile dell’industria metallurgica, mentre Pomigliano soffre la mancanza di prospettive dettate dall’indecisionismo di FCA e dalla concorrenza dei mercati e degli Stati a basso costo. Taranto è una polveriera poiché siamo ancora lontani dalla realizzazione degli impegni sia sul versante della ex ILVA che nei processi di riconversione ambientale. La Calabria, nonostante una grande infrastruttura come il porto di Gioia Tauro ed il completamento della Salerno-Reggio Calabria, vanta il primato della deindustrializzazione, del più recente indebolimento energetico insieme alla presenza della mafia più potente del nostro paese.
In questo quadro è ancora a Nord, con l’autonomia differenziata, con le mille opere infrastrutturali previste, oltre che l’iniziativa di una impresa che è forte e competitiva in Europa e nel mondo, che guardano il dibattito generale e le scelte politiche delle classi dirigenti. Come si usava dire una volta, il Mezzogiorno non può che essere all’opposizione di qualsiasi governo proprio perché, con la fine dell’intervento straordinario, la politica ha smesso di regolare le distanze sociali ed economiche.
Il sindacato è l’unico soggetto di massa rimasto e l’unico che ha una dimensione storicamente nazionale. Tocca dunque a CGIL-CISL-UIL, ancora una volta, a 47 anni dal 22 ottobre 1972, tornare a difendere, insieme alla democrazia, il futuro di quell’area troppo grande per non frenare lo sviluppo del paese. Ma pare che ancora una volta i barbari siano alle porte…
Emilio Miceli è segretario confederale della CGIL
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